Quentin Blake per Mathilda di Rohald Dahl

venerdì 13 dicembre 2019

Le sorelle Field



Di sorellanza ha molto parlato il movimento femminista, nel senso della solidarietà tra donne, per aiutarsi concretamente e affermare, insieme, con più forza, i propri diritti  superando le disparità di genere. I percorsi della sorellanza, sebbene funestati da ripensamenti e inevitabili competizioni, sono ancora attivi e forniscono tuttora elementi per riflettere, essendo probabilmente l'eredità più utile e vivace degli anni Settanta del secolo scorso. Ma il rapporto tra sorelle, unite dal vincolo familiare, non è meno ricco di implicazioni. Pensiamo alle sorelle celebri della letteratura, le Austen, le Brontȅ, le Woolf, le De Beauvoir e quelle che abbiamo incontrato nei loro libri, come le sorelle March, che una certa critica, ormai superata, identifica pari pari con le Alcott.
Nel romanzo  Le sorelle Field, di Dorothy Whipple, per la prima volta tradotto in italiano da Simona Garavelli, troviamo Lucy, Charlotte e Vera, orfane di madre, con tre fratelli alquanto scapestrati. Pubblicato nel 1943, ma ambientato alla fine degli anni Trenta del Novecento, sorprende per l'attualità dei temi e la scrittura fluida eppure puntuale, il tocco lieve e profondo insieme con cui vengono tratteggiate le protagoniste. La narrazione trascura quasi subito i fratelli, emigrati in Canada o rimasti a Londra, del tutto ininfluenti nella storia e si occupa invece delle sorelle che, con caratteri e temperamenti diversi, approdano a matrimoni altrettanto diversi.  L'abbiamo imparato nei romanzi di Jane Austen e misurato sulla nostra pelle, fino alla metà del secolo scorso, che le donne non potevano sottrarsi al destino di mogli, pena l'invisibilità sociale e la precarietà economica, quindi anche   le Field scelgono la loro strada nella vita sulla base delle pressioni ambientali, dell'educazione ricevuta e si sposano.
Dorothy Whipple, quando rimproverata perché ai suoi romanzi mancava intreccio o lieto fine,  usava dire che non scriveva libri di trama, ma di personaggi e  questo romanzo rivela la sua complessità proprio nella definizione dei caratteri delle sorelle e nelle loro  scelte di vita, prospettando anche il tema, tristemente attuale, della violenza psicologica nel matrimonio. Quella lama sottile che taglia di netto l'autostima e fa vacillare la sicurezza, nutrendosi di ambiguità tra il fuori-società e il dentro-famiglia, così da rendere poco fattibile la ribellione a un marito autoritario. È Charlotte, tra le sorelle Field, la più fragile e vessata, incapace di decodificare i segni del potere nella condotta manipolatoria del marito, tesa ad annullare la sua volontà e a rubarle l'affetto dei figli.  Non sembri strana la sua parabola di autodistruzione perché i meccanismi della violenza psicologica sono sovente, ancora oggi,  invisibili agli occhi estranei e, spesso, difficilmente riconosciuti dalle stesse  vittime.
Vera è invece la sorella più frivola, completamente votata al tentativo di preservare il dono della bellezza ricevuta, però anche lei fa i conti con la realtà degli affetti, quelli trascurati e quelli rincorsi e paga il conto che puntualmente arriva. È la maggiore, Lucy, a ricoprire il ruolo di saggia, di conforto e supporto in ogni situazione.  Si afferma come la figura solida, disposta a vegliare sempre sulle sorelle minori, con un'opera di maternage fin dalla loro adolescenza, poi nei  matrimoni, seguendole con uno sguardo  attento e preoccupato,  pronta ad aiutarle in presenza e a distanza.
Quindi romanzo di famiglia, affetti, legami e, purtroppo, soprusi. Si può leggere abbandonandosi alla scrittura apparentemente semplice che fa di questo libro, come degli altri di Whipple, un autentico page-turner, ma si può anche operare una lettura più profonda, confrontandosi con l'attualità del tema centrale e scoprendo quanta strada sia ancora da compiere perché le donne si affranchino dalle forme più nascoste e subdole di violenza.  

Le sorelle Field, Dorothy Whipple (traduz. Simona Garavelli), Astoria, 2019.
 

Dorothy Whipple (1893 - 1966) fu una scrittrice molto amata e letta in Gran Bretagna nel periodo tra le due guerre, poi cadde nel dimenticatoio. Da Le sorelle Field (They Were Sisters),  pubblicato dopo l'enorme successo di The Priory  e di They Knew Mr. Knight, fu tratto il film omonimo di Arthur Crabtree nel 1945, che vide l'attore James Mason nel ruolo del marito prepotente e odioso. 
L'auspicio,  peraltro già espresso (Leggere Donna, n°163, 2014), è che tutta l'opera di questa autrice inglese sia resa nota al pubblico italiano perché presenta ritratti di donne che imparano dai loro errori, oppure vi si incaponiscono, praticano il perdono senza perdere dignità, si mettono dolorosamente in gioco in un periodo storico che le scoraggiava a farlo. Whipple scrive  senza sottolineare una critica di genere, senza esplicitare una rivendicazione pugnante di diritti e senza risentimento nei confronti degli uomini. Sono i motivi per cui  fu ignorata dal movimento femminista, ma potrebbero oggi farla riscoprire perché i tempi sono maturi per un confronto più disteso fra uomini e donne.

già pubblicato su
https://cartesensibili.wordpress.com/2019/10/28/lauradeilibri-laura-bertolotti-le-sorelle-field/



giovedì 12 dicembre 2019

Ricette migranti




Da un'esperienza collaudata in diverse realtà italiane, Indovina chi viene a cena, è nato un libro di ricette sui generis: venti piatti, venti storie di vita. Se più affascinanti le ricette o le narrazioni è questione di punti di vista, nel suo insieme il libro si pone come un esperimento editoriale di sicuro interesse, persino come strenna natalizia. Si presenta curato nella veste grafica, ricco di illustrazioni e corredato da finestre di approfondimento sui Paesi di provenienza delle ricette, con il testo delle stesse anche in lingua originale.
Il format "Indovina chi viene a cena" nasce dalla Rete Italiana di Cultura Popolare, importato dall'Associazione Veronetta129 nel 2013. Si tratta di autentiche "cene al buio", di fatto  famiglie di stranieri invitano famiglie veronesi, native o d'adozione, a casa loro, per un pasto all'insegna dell'accoglienza e dello scambio culturale e l'Associazione si occupa di selezionare e abbinare ospiti e ospitanti per garantire la sicurezza e la varietà delle proposte.
Le autrici hanno vissuto personalmente l'esperienza di ospitalità, recuperando ricette e storie, e gli incontri sono  diventati una sorta di  viaggio, grazie  al cibo che  si fa tramite di memoria, curiosità, conoscenza e si pone come un formidabile strumento di integrazione sociale.
Nell'introduzione si ricorda infatti come anche la cucina italiana cosiddetta tradizionale sia il frutto di contaminazioni successive e possa dirsi meticcia. Riconoscere ingredienti noti nel börek turco (fagottini ripieni) o nel  Koliko Koudo azin he noughagha (patate dolci fritte e uova in salsa di pomodoro piccante) del Togo, per fare qualche esempio, funziona da collante nelle relazione. E anche scoprire la varietà infinita di cibi cinesi, oltre l'involtino primavera,  aiuta a superare lo stereotipo che assegna la superiorità indiscutibile alla nostra cucina rispetto le altre.
Una considerazione sorge spontanea: questo libro nasce a Verona, città controversa per molti motivi, talvolta agli onori della cronaca per episodi di violenza. Ebbene, dimostra l'esistenza di azioni positive che possono essere valide anche in altri contesti e il libro si prospetta appunto come mediatore di valori e sapori da conoscere e diffondere.

Ricette migranti, Elena Guerra, Alice Silvestri, Erica Tessaro, CIERRE edizioni, 2019.

Le autrici sono tra le promotrici di attività e progetti dell'associazione Veronetta 129.
Elena Guerra, giornalista, organizzatrice di eventi.
Alice Silvestri, insegnante di italiano come lingua seconda.
Erica Tessaro, insegnante ed educatrice interculturale.


già pubblicato su:
(segue intervista a Elena Guerra)

"Indovina chi viene a cena", il rimando al film è immediato, ma in questo caso  di che cosa si tratta?
È un progetto che l'Associazione Veronetta129 ha importato, per così dire, dalla Rete Italiana di Cultura Popolare,  ideatrice del format nel 2011, reso permanente l'anno successivo. Si tratta di autentiche "cene al buio" che preparano cittadini di origine straniera invitando persone che si rendono disponibili a un'esperienza di scambio culturale, a partire dal cibo. La nostra Associazione è il tramite a cui si indirizzano la richiesta di partecipazione, un documento di identità, l' eventuale segnalazione di intolleranze alimentari e il modulo di adesione, scaricabile dalla pagina Facebook del progetto. Gli ospiti non conoscono le persone che li accoglieranno, né la loro nazionalità, sapranno solo indirizzo e nome il giorno prima della cena.
Gli abbinamenti hanno dato luogo a qualche problema?
Curo questo progetto dal 2013, con  Alice ed Erica, e posso affermare che ha sempre incontrato molto interesse e favore da parte dei cittadini veronesi, immigrati e non. Lo constato dalle fotografie e dai numerosi riscontri che arrivano all'Associazione, sono note anche vere e proprie amicizie nate in seguito alle cene. Ormai abbiamo organizzato più di cinquanta incontri, con cadenza mensile, abbiamo trenta famiglie ospitanti di almeno ventotto nazionalità, posso concludere che soltanto in due occasioni si siano verificati incidenti culturali di rifiuto. Gli abbinamenti non sono un problema, piuttosto non è sempre scontato e semplice reperire le famiglie ospitanti. C'è chi desidera ricevere una tantum e chi, invece, individua la possibilità di ricavare un esiguo income dall'iniziativa.
Normalmente, come ospiti, si porta un piccolo presente, ma come ci si regola se non si conosce la famiglia?
Non conoscendo nazionalità e usi della famiglia ospitante, diamo indicazione di seguire la norma generale, stabilita dalla Rete di Cultura Popolare: recarsi all'incontro provvisti di una busta chiusa contenente 15€ a persona. È un contributo minimo che arriva direttamente alle famiglie, senza transitare dalla nostra Associazione, per garantire la copertura parziale dei costi.
Voi volontarie e curatrici del progetto partecipate alle serate?
Soltanto quando si tratta di famiglie alla prima esperienza di ospitalità. Preferiamo non interferire, la nostra mediazione avviene prima, come ho spiegato.
Allora adesso parliamo del libro Ricette Migranti che è nato da questo progetto, com'è nata l'idea?
L'idea del libro è stata suggerita da un'ospite particolarmente entusiasta che ha creato la connessione con la casa editrice e noi tre abbiamo collaborato con le rispettive competenze, Erica per la trascrizione delle ricette, Alice per le fotografie e io per le storie, perché volevamo realizzare un libro che restituisse l'umanità degli incontri attraverso i "piatti" della memoria e del cuore. In particolare, è stata curata la trascrizione delle ricette anche nella lingua madre degli ospitanti, così da rendere il testo utile nei corsi di Italiano come lingua seconda. Venti piatti, venti storie di vita, le narrazioni sono regali che rendono possibile un viaggio in Paesi diversi in cui rintracciare anche le nostre radici gastronomiche e misurare la contaminazione feconda che genera e custodisce il cibo.
Mi sembra importante che questo libro, sotto il segno dell'accoglienza e dell'integrazione, sia nato proprio a Verona, una città complessa e controversa, come sappiamo.
Il libro nasce a Verona, ma aspira a viaggiare oltre la città perché il messaggio che vuole veicolare è di apertura al mondo, a partire dalla cucina, che è meticcia da sempre, incontro e snodo di esperienze e materia prima. E ci sembrava importante sottolineare, in controtendenza all'immagine della città,  la capacità delle e degli abitanti di Verona, di svariate origini, di saper accogliere ed essere accolti intorno a una tavola imbandita.




https://www.facebook.com/IndovinaChiVieneACenaVerona/

https://www.facebook.com/veronetta.centoventinove/
https://www.facebook.com/mediorizzonti/

mercoledì 30 ottobre 2019

Mille anni che sono qui - Agatha Raisin e la Sorgente della morte

Dovevo titolare Una pila di libri 3, 
perché sono ancora letture estive (sono in ritardo nell'aggiornamento del blog, lo so) ma ho preferito optare per qualcosa di più criptico. E mi fermo qui con i "compiti delle vacanze" perché ormai sono fuori tempo massimo.

M.C.Beaton è uno degli svariati pseudonimi con cui ha pubblicato Marion Chesney, scrittrice e giornalista scozzese, classe 1936. La serie di Agatha Raisin prende il via nel 1992, al momento composta da ventitre volumi.  Una personaggia tutt'altro che perfetta, scorbutica, infelice anche se risoluta a non darlo troppo a vedere. In questa storia, Agatha Raisin e la Sorgente della morte,  è alle prese con una grande azienda produttrice di acqua minerale, pronta a lucrare su una fonte ritenuta "miracolosa". Incaricata di curare il marqueting dell'impresa, si imbatte in un morto, come al solito, e non resiste alla tentazione di indagare. Ma si occuperebbe volentieri anche della sua situazione sentimentale, se ne avesse il tempo e l'incoraggiamento dalla persona che le sfugge per motivi riconducibili a storie precedenti. Che cosa rende questo libro interessante? Direi il rapporto che Agata ha con il territorio, un paese che la considera estranea ed eccentrica nonostante sia residente da tempo nel villaggio. E poi il suo fiuto per i dettagli che si rivelano importanti, la sua disinvolura nell'usare le persone per raggiungere il risultato che si prefigge e la sua ingenuità che affiora sempre, a dispetto dei modi bruschi.

Altra storia Mille anni che sto qui, di Mariolina Venezia, Premio Campiello 2007.
Una saga familiare che comincia nel 1861, a Grottole, in Lucania e si conclude a Parigi, nel 1989. Insieme alla storia della Basilicata, di Matera, scorrono anche immagini di un'Italia che non c'è più, di una solidarietà generosa tra le persone, di una famiglia che conosce la gioia e viene funestata dalle disgrazie. Vecchiaia e giovinezza si incontrano in un Sud raccontato come non mai da un'autrice  che, per parlarne, ha provato a staccarsene e vivere altrove. Una lettura che lascia il segno, una scrittura densa che rende quei luoghi vicini, magici, e i problemi personali dei personaggi sono inseriti in una storia più grande, in cui confluiscono politica, amore e poesia.

Mille anni che sto qui, Mariolina Venezia, Einaudi, 2006.
Agatha Raisin e la Sorgente della morte, M.C. Beaton, Astoria, 2013.


sabato 21 settembre 2019

Figlie di una nuova era - E' tempo di ricominciare


Continuo a parlare delle mie letture estive con questi primi due libri  (il terzo uscirà l'anno prossimo) di una saga che ha avuto successo anche nel nostro Paese.



Nascere nel 1900 e attraversare due guerre non è semplice, ancor più se donne, ancor più in Germania, sembra suggerire Carmen Korn, autrice della trilogia di successo Jahrhunder - Trilogie, Trilogia del secolo.  Figlie di una nuova era racconta la giovinezza di quattro ragazze di Amburgo, a partire dal 1919 al 1948.  Henny, Käte, Lina e Ida si affacciano al mondo del lavoro con il desiderio di crearsi un'autonomia in controtendenza con i tempi che le vogliono unicamente mogli e madri. Di estrazione sociale diversa e con caratteri profondamente diversi, ma unite da una salda amicizia si avventurano nel mondo del lavoro e degli affetti e le loro storie si intrecceranno strettamente nel corso del tempo. Sono ostetriche Henny e Käte, Lina è un' insegnante, e Ida una ragazza viziata e ricca, tutte affrontano scelte di vita che  le espongono a rischi e le costringono a misurarsi con l'ascesa del nazismo e la paura del conflitto imminente. Ci sono anche ammirevoli figure di uomini, come Rudi, da sempre innamorato di Käte e sensibile alla poesia, e Theo Hunger e Kurt Landmann, medici coscienziosi alla clinica Finkenau, di cui leggeremo fino alla fine del secondo volume. Le ragazze si tagliano i capelli, gesto oltremodo coraggioso, e si sposano o quasi, nel primo volume, mentre nel secondo, È tempo di ricominciare, c'è un riflesso più preciso del mondo circostante, come l'uso della pillola anticoncezionale, la costruzione del muro di Berlino, l'assassinio dei fratelli Kennedy,  le lotte del movimento studentesco. Ci sono le famiglie delle ragazze,  o quel che ne resta dalla guerra, chi è tornato e chi no o non ancora, ci sono delatori e dispersi, poi chi lascia e parte e chi lascia e si risposa, e persino chi scopre radici insospettate. Il nazismo ha segnato la fine di un sistema di pensiero, di cui fa parte Else, madre di Henny,  e la guerra ha distrutto le vite e le case, ma il dopoguerra, inspiegabilmente a mio parere, non fa i conti con il pesante fardello dell'Olocausto. Si avverte piuttosto, nei pensieri e discorsi di tutti,  il desiderio di voltare pagina presto, anzi subito, e tutta la precisione con cui l'autrice descrive cosa mangiano, come si vestono, quale musica ascoltano i personaggi, appare come una mera elencazione per far procedere velocemente la trama fino al 1969. Complessivamente, il secondo volume mi sembra perda un'occasione, invece il primo  delinea nettamente un'epoca, un paese e la vita sotto il regime nazista.

Figlie di una nuova era, Carmen Korn (Töchter einer neuen Zeit), traduz. di Manuela Francescon e Stefano Jorio, Fazi Editore, pagine 522, €17,50.
È tempo di ricominciare, Carmen Korn (Zeiten des Aufbruchs), traduz. di Manuela Francescon, Fazi Editore, pagine 563, €20,00.

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Leggere Donna n°185/2019

venerdì 13 settembre 2019

Il gioco di Santa Oca, Fedeltà, L'amore che dura, Persone normali, La versione di Fenoglio, Addio fantasmi, Il giardino di Elisabeth, Un incantevole aprile, La fattoria di gelsomini

Una bella pila di libri, quella che avevo predisposto per l'estate, ma il tempo di leggere, sempre un po' rubato alle relazioni, all'esercizio fisico (tanto per dire) e alle innumerevoli  incombenze quotidiane, non è stato quello sperato. E non voglio parlare della (im)possibilità di scrivere perché, d'accordo con Virginia Woolf, esigerebbe una "stanza tutta per sé", o almeno, fuor di metafora, uno spazio fisico e temporale in cui ritrovarsi, concentrarsi, estraniarsi.  Niente stanza tutta per me nell'estate 2019, tuttavia sono riuscita a leggere qualcosa della (forse esagerata) montagna di testi che avevo accantonatto, poi si vedrà. 

Di Elisabeth von Arnim (lettura a lungo accarezzata ma sempre procrastinata) ho apprezzato  Il Giardino di Elisabeth, meno La fattoria dei gelsomini  e Un incantevole aprile.  Forse più per il mio opinabile pollice verde che per la scrittura o la trama. Ho trovato descrizioni puntualissime e affascinanti di fiori e piante e un gusto per il paesaggio come scena ideale della vita, panacea per tutti i mali. Qua e là considerazioni di classe e, soprattutto, riflessioni sulla condizione delle donne, risolte con svagato cinismo, direi. Mi riferisco in particolare  alle osservazioni sul lavoro delle braccianti, e mi sovviene che negli stessi anni usciva Le solitarie, di Ada Negri, un racconto di altro spessore. Gli altri due romanzi mi sono parsi troppo leziosi. Non condivido neppure la diffusa opinione su Un incantevole aprile, definito sovente "incantevole" come lo stesso titolo. Tuttavia mi è parso un romanzo piacevole, costruito sullo schema della commedia degli errori, con un'attenta descrizione dei luoghi e  dialoghi colorati da qualche tocco ironico.


Con un occhio ai premi letterari, dalle cinquine finaliste di Strega e Campiello avevo pescato Missiroli, Terranova e Pariani.
Il gioco di santa Oca, di Laura Pariani, è un romanzo che unisce bella prosa, trama, ricerca storica, problemi sociali. Diverso da Nostra Signora degli scorpioni, della stessa autrice (che mi ha fatto riscoprire il lago d'Orta come meta dei grand tour ottocenteschi), eppure simile per la declinazione della lingua che abbraccia dialetto, gramlo, proverbi e detti popolari. Due libri che valgono la lettura e ripagano largamente. Ne Il gioco di Santa Oca, siamo a spasso in un luogo ribattezzato "brughiera" e in un Seicento associabile al manzoniano I Promessi sposi, però sia il tempo che il luogo sfumano presto nella narrazione, come nelle fiabe, e saltano in primo piano le vicende delle persone, le loro storie, la loro condizione di vita. Ci sono i "terrieri", gli umili,  soggetti alle angherie dei signori e dei soldati e persino a quelle degli ecclesiastici, tutti meglio nutriti e rivestiti di bei panni, mentre i poveri "pitochi" vedono e soffrono guerre, razzie, incendi e,  se sono femmine, soffrono ancora di più.  Pariani racconta la storia di un tale, Bonaventura Mangiaterra,  che alzò la testa per rivendicare giustizia, un ribelle che tenne in scacco i potenti ed ebbe gran seguito fra i suoi contemporanei. La voce narrante è quella singolare di Pùlvara, o Poo, donna che si finse uomo per entrare nella banda,  una "camminante" raminga e solitaria che ora, dopo vent'anni, persegue un suo progetto di ritrovamento, di "cassina in cassina" e, per un "tocco" di pane, incanta con le sue storie. 
Con la sua lingua apparentemente antica, Pariani procura un esito insospettato, tra stupore, divertimento e riflessione, tenendoci inchiodati alla pagina  e, per chi ha radici contigue a Lombardia e Piemonte, fomenta memorie infantili e famigliari. 

Lei, lui, l'altra e l'altro per le prime decine di pagine, in Fedeltà di Marco Missiroli. Un quadrilatero, più che un triangolo, elencazione di gesti, impegni e frequentazioni. Poi tutto si complica e inizia un viaggio nelle menti e sottopelle dei personaggi che scava dubbi e disegna scenari con patemi, resistenze e abbandoni. E ci sono anche i corpi, nel loro alfabeto di bellezza e desiderio. Annullate le distanze spaziali, il racconto pone nella stessa unità di tempo le vicende di tutti i soggetti. Banale, forse, ma mi è sorto un interrogativo (di eco "morettiano"): sono più fedele se non tradisco o, per esserlo, non devo neppure farmi sfiorare dalla tentazione? Meno banalmente, la domanda che serpeggia sembra essere: cosa rende  salda la vita di coppia e come si spiega l'amore che dura? L'autore si è preso il compito di trattare un argomento non semplice, senza citare Flaubert, senza cinismo e senza esagerare con i sentimenti, molto realistico,  a mio parere, sortendo una fotografia sociale decisamente contemporanea.
A proposito di amore che resiste al tempo, l'ultimo titolo di Lidia Ravera. Meno militante del precedente (Il terzo tempo) questo suo L'amore che dura, ha anche una grazia malinconica, pur rivisitando i temi sempre cari all'autrice: il periodo sessantottino, l'impegno politico, l'inserimento nel sistema sociale, dopo le lotte, con le necessarie, talvolta dolorose,  mediazioni. Anche qui, come in Fedeltà, l'argomento sembra essere l'amore di coppia, con i suoi limiti e i suoi regali. Anche qui il discorso non scade mai nel sentimentalismo, anche se di sentimenti si parla dall'inizio alla fine, e la fine è sconcertante, potete credermi.
C'è ancora un terzo libro, sempre sul tema amore-di-coppia, che desidero accomunare ai due precedenti, Persone normali, di Sally Rooney, giovane scrittrice irlandese, molto apprezzata nelle isole britanniche, con un buon successo di vendite anche nelle traduzioni italiane. Alla sua sola seconda prova narrativa, mostra una scrittura dai dialoghi scabri, senza segni d'interpunzione, come talvolta sembrano parlare proprio i giovani e giovanissimi. Mi chiedevo cosa avesse da "dirmi" una giovane penna, decisa ad archiviare il suo romanzo, acquistato distrattamente, tra quelli inutilmente letti. Invece sono rimasta favorevolmente impressionata dalla capacità di descrivere le convenzioni entro cui ci si imbatte nell'innamoramento e nel prosieguo dell' amore, e le scelte frustranti che annientano i sentimenti, alimentati da qualcosa che ha a che fare con il dono di sé, senza riserve, senza confini.

Non mi soffermo su Addio fantasmi, di Nadia Terranova, che ha avuto ottime e qualificate recensioni, perché ci sono libri che non mi coinvolgono, per mille motivi, e preferisco diffondermi su quelli che mi interessano davvero e non sottolineare altro. Voce fuori dal coro? Anche se la posizione mi risulta scomoda, sì. 

Concludo la prima puntata delle mie impressioni di lettura sui libri accostati da giugno a fine agosto con La versione di Fenoglio, di Gianrico Carofiglio. La scrittura di questo autore non è mai scontata, come pure la scelta degli argomenti. In questo  romanzo sembra prevalere la sua competenza di magistrato, ma senza alterare l'armonia della narrazione e senza trasformare il racconto in un'arida cronaca d'ufficio. I "casi" che ricorda il protagonista, un maresciallo carabiniere, sono descritti con dovizia di particolari, inducono a riflettere su giustizia e forze dell'ordine, modalità e tempi di detenzione, chi sono i buoni e chi i cattivi e come il confine tra questi sia talvolta sottile e labile. Tutto già esplicitato nel titolo: si tratta della "sua" versione, di testimone o decisore a seconda della situazione, ma si lascia intendere che  altre possibili opinioni/versioni abbiano il diritto di esistere. E tuttavia non si avverte un'aria relativista e giustificatoria. Au contraire, si respira la tensione etica che riconduce i fatti e le scelte a responsabilità precise. C'è un altro tema che aleggia nel racconto, la vecchiaia, con il corredo di decadimento fisico  e malinconico rapporto con la giovinezza passata. Molto intrigante, ma garbato nell'uso della parola come sa renderlo Carofiglio, il libro giustifica la sua posizione tra i più venduti di questo periodo. 
(continua)
Il giardino di Elisabeth, Elisabeth von Arnim (Elisabeth and Her German Garden, 1898, traduz. di Graziella Bianchi Baldizzone), Bollati Boringhieri, 2012.
Un incantevole aprile, Elisabeth von Arnim ( The Enchanted April, 1922, traduz. di Luisa Balacco), Bollati Boringhieri, 2012.
La fattoria dei gelsomini, Elisabeth von Arnim (The Jasmine Farm, 1934, traduz. di Sabina Terziani), Fazi Editore, 2018.
Il gioco di Santa Oca, Laura Pariani, La nave di Teseo, 2019.
Nostra Signora degli Scorpioni, Nicola Fantini, Laura Pariani, Sellerio, 2014.
Fedeltà, Marco Missiroli, Einaudi, 2019.
L'amore che dura, Lidia Ravera, Bompiani, 2019.
Persone normali, Sally Rooney (Normal People, 2018, traduz. di Maurizia Balmelli), Einaudi, 2019.
Addio fantasmi, Nadia Terranova, Einaudi, 2018.
La versione di Fenoglio, Gianrico Carofiglio, Einaudi, 2019.

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martedì 11 giugno 2019

Amore inquieto




Una scrittura dettata da un imperativo personale e inderogabile, Amore inquieto, di Nadia Tarantini. Un bisogno profondo di chiarezza e memoria, con il desiderio di trattenere la vita che non c'è più nella forza evocatrice delle parole. Parole che raccontano fatti, gesti, famiglie, giovinezza e mancanza. Perché in tutto questo libro pieno di persone aleggia un vuoto grande, un dolore accennato e infine narrato, un rimpianto, direi. L'autrice, giornalista e scrittrice, con questo memoir ripercorre il rapporto madre-figlia alla luce dei gesti di cura nella fase terminale di vita della sua mamma e dei ricordi,  creando una narrazione insieme distante dalla realtà vissuta e, in un certo senso, più universale, per comprendere le molte sfaccettature di un rapporto mai semplice, fatto di affetto, conflitti, persino rancori e compassione.
«Ciò che un tempo ti ha fatto soffrire, il setaccio della vita lo ha reso leggero, come un vento di primavera».
E anche: «Le piace essere accudita, ma odia pensare che i figli le stiano accanto perché non può più stare da sola. Vuole dare qualcosa, lasciare segni, per vivere ha necessità di uno scambio continuo».
«Cerca l'incontro, il cibo, il pensiero buono che la farà ricominciare».
La narrazione ha un andamento rapsodico, non è lineare come non lo sono i ricordi, che affiorano incoerenti e persino subdoli. Il trait d'union sono le parole che rimandano alle parole dette, ascoltate, carpite per caso, comprese o fraintese, ma tutte destinate a lasciare una traccia, sempre.
«La scrittura, ne sono convinta» afferma Tarantini «ce la danno le madri. Non soltanto perché sono materne le prime parole che impariamo, ma perché le madri ci danno il contesto per raccontare, le scene dell'immaginario con le quali ci spiegano il mondo. Un'impronta quasi più importante del camminare, mangiare [...]».
Dalla lettura del diario, in parte regalato e poi ereditato, su cui la mamma ha scritto fino alla fine dei suoi giorni,  si aprono squarci di conoscenza della nonna, dei parenti e di lei stessa, che la inducono a riflettere sul presente e sul passato delle relazioni famigliari.
«Perché ci lasciamo insultare dai figli? Dicono che sia per amore, ma non è vero; se fosse amore lo sentirebbero e non avrebbero bisogno di insultarci. Dicono che sia per egoismo, per paura che ci abbandonino. Questo è più probabile. Soprattutto con l'avanzare dell'età».
Con il libro precedente, Quando nascesti tu stella lucente (L'Iguana Editrice, 2017), Tarantini mi aveva avvicinata al genere distopico,  dove non era riuscita neppure Margaret Atwood (con Il racconto dell'ancella, Mondadori, 1988), intrigandomi con un testo disperatamente attuale nel configurare un futuro per il nostro pianeta. Invece questa sua opera mi è parsa subito impegnativa a leggersi, non per la scrittura, che fluisce con naturalezza, piuttosto perché dovevo impormi di resistere alla commozione e alla sofferta identificazione nei ruoli. L'autrice mi ha scritto che nell'essere figlia e madre  bisogna imparare a perdonare e perdonarsi. Mi pare sia tanto vero quanto difficile da praticare.
«L'amore non dicibile per mia madre; e dentro di me l'ho sempre criticata».
Anche Luisa Muraro scrisse che ogni donna, per vivere liberamente, ha bisogno, simbolicamente, della potenza materna, come ne ha avuto bisogno per venire al mondo e può averla solo in cambio di amore e riconoscenza. 
Amore inquieto si propone, a mio parere, come un libro che smuove sentimenti offuscati o volutamente rimossi e, nel contempo, invita alla condivisione delle esperienze, per trovare o ritrovare e valorizzare quel fil rouge con la madre che fa di noi quelle che siamo.

Amore Inquieto, Nadia Tarantini, Iacobelli Editore, 2019.




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https://cartesensibili.wordpress.com/2019/06/28/lauradeilibri-laura-bertolotti-amore-inquieto-di-nadia-tarantini/

Leggere Donna n°184/2019



Ho pensato di riproporre anche altri libri, già recensiti o citati, sul rapporto madre-figlia, perché l'argomento mi è caro e ci ritorno sovente. Sicuramente ne ho dimenticato qualcuno.

La tesa fune rossa dell'amore. Madri e figlie nella poesia femminile contemporanea di lingua inglese, a cura di L. Magazzeni, F. Mormile, B. Poster, A. M. Robustelli, La Vita Felice, 2015.
La nave per Kobe. Diari giapponesi di mia madre, Dacia Maraini, Rizzoli, 2001.
Mia madre, Doris Lessing (Impertinent Daughters. My Mother's Life, 1988) traduz. di Paola Mazzarelli, Bollati Boringhieri, 1988.
Una morte dolcissima, Simone de Beauvoir (Une mort très douce, 1994) traduz. di Clara Lusignoli, Einaudi, 2001.
L'ordine simbolico della madre, Luisa Muraro, Editori Riuniti, 1992.
La passione di una figlia ingrata, Saveria Chemotti, L'Iguana Editrice, 2014.
Siamo tutte ragazze madri, Saveria Chemotti, L'Iguana Editrice, 2018.
Al Faro, Virginia Woolf (To The Lighthouse, 1927), traduz. di Nadia Fusini, Feltrinelli, 1992.



mercoledì 22 maggio 2019

Sono io la tua sposa marina



Le vicende di una famiglia toscana dal primo Novecento ai giorni nostri, in una narrazione a più voci, a prevalenza femminile. Che sia forte, fragile o borderline, una voce di donna si staglia sempre limpida, a dispetto delle convenzioni, della distanza dagli affetti e  nonostante le controversie e i lutti che presenta la vita. Le donne, ma anche gli uomini, in questa narrazione, non sono perfette, sono persone che vivono fino in fondo le loro esperienze, soffrono, rialzano la testa, affrontano dubbi e  complicazioni con coraggio, determinazione e un senso della famiglia che non li abbandona mai.
La famiglia nasce a Viareggio, si poggia su Angelo, coraggioso palombaro che ha contribuito, con le sue invenzioni, peraltro mai brevettate, a rendere meno ardua la vita negli abissi marini agli uomini che vi discendono per lavoro.  Sta concludendo la missione di recupero dell'Egypt e assapora il desiderio di tornare a casa con una ricompensa adeguata e, finalmente,  dedicare più tempo alla famiglia, quando si compie il suo appuntamento con il destino. È il 1930, ha trascorso gran parte della sua vita in mare, ha una moglie italiana e quattro figli, e una liaison con Adrienne, la sua compagna francese, da cui avrà un altro figlio. I due rami della famiglia si ignoreranno per lungo tempo, finché qualcuno avrà il coraggio di aprire quel capitolo.
Una storia con andamento non lineare che mescola passato, tradizioni, anticonformismo, famiglia, affetti, politica e luoghi, a leggerla non ci annoia, un po' ci si riconosce, un po' ci si commuove e un po' ci si stupisce.



Sono io la tua sposa marina, Donatella Borghesi, L'Iguana, 2018.




Donatella Borghesi, giornalista, ha pubblicato il discusso saggio Specchio, specchio delle mie brame, luci e ombre dell'invidia tra donne, La Tartaruga, 2000.

lunedì 6 maggio 2019

Shakespeare and Company


Storia di libri e librerie, per chi la gradisce.
A me piacciono questi racconti, manco a dirlo, e questa è la storia di una libreria degli anni Venti, a Parigi, che ha visto passare Ezra Pound, Ernest Hemingway, James Joyce, John Dos Passos, Gertrude Stein, Scott Fitgerald, giusto per nominare alcuni autori  tra i più famosi.
Nata dal piglio manageriale, anche un po' improvvisato, della giovane americana Sylvia Beach (1887 - 1962), in un momento in cui, a causa del proibizionismo, molti scrittori d'Oltreoceano si stabilivano a vivere a Parigi. Era il 1919 e la libreria si chiamò Shakespeare and Company,  vendeva e prestava libri, la tessera era tenuta in gran conto dai proprietari, come un passaporto. Ma l'iniziativa più importante di Sylvia, che qui narra in prima persona, fu avventurarsi nel pubblicare l'Ulisse di Joyce, impresa che la costrinse a sobbarcarsi enormi spese, fino al punto della bancarotta sfiorata,  e innumerevoli complicazioni di ordine pratico.
Sylvia aveva per Joyce "un'autentica venerazione", lo descrive come un uomo "di media statura, magro, sottile, leggermente curvo e molto aggraziato. Si notavano subito le sue mani sottilissime, la sinistra adorna di anelli [...]. Straordinariamente belli gli occhi, di un azzurro profondo, in cui brillava la luce del genio. [...]Si esprimeva con semplicità ma [...]scegliendo con cura parole e suoni" per il suo amore della parola e perché aveva insegnato inglese.
Sylvia rimase affascinata anche dalla facilità con cui Joyce parlava e imparava nuove lingue, almeno nove, oltre la sua: italiano, francese, tedesco, greco, spagnolo, olandese e le tre lingue scandinave, il norvegese per leggere Ibsen e poi svedese e danese. Ma non fece mai cenno a cinese e giapponese, aggiunge maliziosamente, forse per lasciarle a Pound. Joyce aveva il problema di trovare casa, una fonte di reddito per la sua famiglia e finire Ulisse. Sylvia fece in modo di aiutarlo in tutti questi aspetti, e poi pubblicò il suo romanzo, ma  fu un'impresa che non l'arricchì affatto, nemmeno quando i diritti vennero ceduti a un editore americano.
Ecco, solo in qualche punto del racconto, si può leggere un filo di rammarico, giusto un accenno, perchè Sylvia Beach scrive:
"Mi sembrava naturale che i miei sforzi e sacrifici dovessero essere proporzionali alla grandezza dell'opera che pubblicavo".
E ancora:
"Quando curavo gli interessi di Joyce mi dimostravo avidissima, e mi ero fatta la fama di un'attivista spietata. Nessuno però ignorava la verità: Shakespeare and company aveva la facoltà di trattare tutti gli affari di Joyce, ma non ne ricavava alcun utile, servizio gratis."
Infine, la nota più amara:
"[...]io stessa avevo dato licenza a Joyce di farne quel che voleva, e dopo tutto i libri erano i suoi: i figli appartengono alla madre, non alla levatrice, direi".
La figura di Joyce ne esce ridimensionata, a mio parere, questa faccenda del genio che deve essere capito, accudito, aiutato in ogni modo mi sta un  po' stretta e fatico ad accettarla, preferisco pensare che la sua più grande fortuna sia stata trovare sui suoi passi una Sylvia Beach, come non è dato a tutti/e quelli/e che scrivono, geniali o meno che siano. Persino Hemingway, il gigante buono e intemperante (che lei definisce "il padre riconosciuto della fiction moderna),  lo aiutò a diffondere in modo clandestino il romanzo, quando i confini americani erano ancora interdetti a Joyce, e Pound lo sostenne convincendo un importante direttore a pubblicare a puntate Ritratto dell'artista da giovane (conosciuto da noi come Dedalus). E Joyce? Scriveva, riscriveva, correggeva e ricorreggeva meticolosamente le bozze, facendo impazzire tipografi e dattilografe, si occupava della sua famiglia, sì, ma spendeva e spandeva senza criterio ("come un marinaio ubriaco") senza domandarsi quanto costasse alla libraia  la sua prodigalità.
L'esilità di Sylvia, libraia che molti di noi vorremmo incontrare, come ho già detto, era solo apparente, in realtà era tenace, determinata e il suo amore per i libri la portò a una dedizione totale alla causa Ulisse , guadagnandole una notevole notorietà, ma condizionandole non poco la  vita. Nella stessa strada parigina, rue de l'Odeon,  si trovava un'altra libreria, la Maison des Amis, di Adrienne Monnier, la libraia francese dove passavano André Gide, Paul Valéry, Jules Romains, tra gli  altri.  Sylvia fu legata a lei da profonda amicizia, o da "matrimonio bostoniano", per così dire, fu sempre un punto fermo nella sua vita, tra alti e bassi economici, grandi incontri e clienti affezionati, che chiamava bunnies, derivando liberamente il termine dal francese abbonés.
Lei, che sognava di aprire una libreria francese a New York, invece animò per decenni una libreria americana a Parigi, realizzando una vera e propria home away from home, una comunità di lettori, per tutti quelli che erano punti dalla nostalgia di casa e per i tanti altri che semplicemente amavano la letteratura anglosassone. 

Shakespeare and Company, Sylvia Beach, (Shakespeare and Company, 1956), traduz. di Elena Spagnol Vaccari, prefaz. di Livia Manera, Neri Pozza editore, 2018.

Nota
Anche ora, a Parigi, si trova una libreria con lo stesso nome, ma in rue de la Bucherie, strada molto turistica e visitata da scrittori e scrittrici famose, il proprietario volle chiamarla così, nel 1964, per ricordare Sylvia Beach.



pubblicato su
https://cartesensibili.wordpress.com/2019/04/28/lauradeilibri-laura-bertolotti-shakespeareco/


mercoledì 24 aprile 2019

Non ci salveranno i melograni




Il melograno è una pianta resiliente, resiste alle poche cure e sopravvive in terreni calcarei, in cambio regala frutti generosi ed è, da sempre,  simbolo di prosperità. Non è un caso che sia stato scelto da Maristella Lippolis quale albero emblematico di una tragedia annunciata. In Non ci salveranno i melograni, l'autrice racconta una vicenda privata nel contesto di una natura stupenda, un'isola della Croazia, nel momento in cui si addensano le nubi di quella guerra che ha cambiato il volto dei paesi e stravolto la vita delle persone, finanche la loro lingua.
Laura arriva sull'isola con un bagaglio di emozioni indistinte, è in vacanza ma non proprio, vuole restare ma non sa bene quanto tempo, ripensa a quello e a chi ha lasciato, ne soffre, ma desidera stabilire una distanza dalle esperienze precedenti. Incontra Vera, una donna "antica", in assoluta armonia con la terra che abita e stabilisce con lei un dialogo fatto di gesti e sguardi che prescinde dalla lingua che parlano, l'una sconosciuta all'altra, e le rare parole tra loro sono solo un sigillo di avvenuta comprensione.
E incontra Goran, un giovane uomo energico, colto, ma tormentato dalla necessità di prendere una posizione rispetto la guerra che non vo e intuisce come il male più grande.
Il racconto è ritmato da scritture diverse, in prima e terza persona, rende il visibile percepito e l'intima ricerca di senso nel quotidiano, nei rapporti, nella natura. Il finale è sospeso nel boato della guerra devastante, niente sarà più come prima.
Maristella Lippolis scrive con il suo consueto rispetto delle persone, in una lingua che si fa dolce quando descrive Vera, diventa contemporanea ed esplicita nel rapporto con Goran e infine struggente nel tratteggiare i luoghi e il destino che incombe su tutto e tutti.
Pubblicato dopo Raccontami tu (L'Iguana Editrice, 2017) questo romanzo  ricorda come si possa precipitare facilmente nel baratro del razzismo e della violenza.  Una riflessione tristemente utile di questi tempi.

Non ci salveranno i melograni, Maristella Lippolis, Ianieri Edizioni, 2018.

pubblicato su
https://cartesensibili.wordpress.com/2019/03/28/lauradeilibri-laura-bertolotti-a-proposito-di-non-ci-salveranno-i-melograni-di-maristella-lippolis/

martedì 16 aprile 2019

Mio fratello


Ho scelto questo libro per il titolo, leggerlo e identificarmi nelle sue parole è stato fin troppo semplice.
Lascio dire all'autore.

La sua presenza mi mancava. Abitavamo a settecento chilometri di distanza, ci vedevamo poco, ma ci telefonavamo spesso.
Passati sedici mesi, mi mancava ancora, ogni giorno.
Mio fratello l'ha ucciso una clinica privata. (No, era un ospedale pubblico).
Se dovessi riassumere la vita di mio fratello, direi che fu innanzitutto [...] il fratello preferito [...] (e la persona più generosa che sia mai esistita).
[...]tenne per sé il dolore [...]e non si lamentò mai di un qualsivoglia deficit di amore coniugale -seppur, ai miei occhi, così flagrante negli ultimi anni della sua vita come se lo avessero abbandonato nudo nella neve. A volte, nei miei momenti più neri, penso che sia morto proprio per quel freddo.
A volte, per strada, lo vedevo in lontananza.
Non avevo bisogno di verificare. Sapevo che non era lui. Eppure l'avevo visto. Ogni tanto lo vedo ancora.
Il concetto di probabilità aveva un grande ruolo nella sua vita: poiché al peggio non c'è scampo - una questione di probabilità - non era il caso di drammatizzare.
Ho perso la gratuità del suo affetto, il piacere della sua compagnia, la profondità del suo silenzio, il distacco del suo humour, la delicatezza della sua attenzione, la sua serenità di giudizio, la sua intelligenza delle situazioni [...].
[...]la sua disponibilità, la sua calma, la sua discrezione, il suo rifiuto di drammatizzare, la sua lucidità, la sua attenzione [...]avevano fatto di lui il punto di riferimento implicito degli uni e degli altri.
(Adesso siamo tutti più soli, ciao Franco).


L'autore è straconosciuto, la traduzione è perfetta, l'idea geniale: alternare parti dell'opera di Herman Melville, Bartleby lo scrivano, che i due fratelli amavano, a considerazioni come quelle che ho trascritto.
Ripeto, ho scelto questo libro per il titolo e identificarmi nelle parole dell'autore è stato semplice. A volte si trova in un libro quello che esattamente si sta pensando.
Mio fratello, Daniel Pennac (Mon frère, 2018), traduz. di Yasmina Melaouah, Feltrinelli Editore, 2018.






domenica 14 aprile 2019

Vincoli



Sono cresciuta in una casa piena di libri, con familiari che leggevano parecchio e mi sono accostata alla letteratura forse troppo presto, capendo magari in parte o per nulla quello che leggevo, soffermandomi sulle trame e i dettagli che più colpivano la mia immaginazione di adolescente. Poi la vita ha fatto il resto, impegnandomi in mansioni varie e tanti libri non sono mai stati riletti quando avrei potuto disporre di maggiori strumenti per capirli. Così è stato per la letteratura americana e adesso mi trovo sguarnita di paragoni nell'approcciare un autore che apparentano a Faulkner e io vedo invece più vicino a Steinbeck e Hemingway, fermi restando i limiti di cui sopra.
In ogni caso, la lettura di Vincoli, di Kent Haruf è travolgente, guidata da una voce narrante che sembra rivolgersi proprio a noi (come e più de Il grande Gatsby) in un tono amichevole, accorato, ammiccante o straziato dai ricordi, a seconda dei momenti della storia. Ė il primo libro dell'autore e, come gli altri che sono seguiti, è ambientato nei pressi della cittadina di Holt, in Colorado, situata solo nella fantasia dell'autore, mentre altri riferimenti hanno una verità anche geografica, per esempio Glenwood Springs, Aspen.
Il pater familias, Roy, negli anni Venti arriva dall'Iowa  con la sua esile e giovane moglie, sulla traccia di volantini stampati e diffusi dal governo che parlavano di una terra promessa (si veda appunto Furore).  Invece trova una campagna «sabbiosa e arida e perlopiù piatta, con qualche bassa collina di sabbia che si perdeva a NordEst, verso la regione del Nebraska Panhandle. Praticamente non c'erano alberi». 
Ad Ada, la moglie, il posto risulterà sempre estraneo, fino alla morte, e rimpiangerà ogni momento la sua terra d'origine. Roy è duro, assoluto nelle sue decisioni, implacabile e non faccio spoiler rivelando che seminerà grano e infelicità per tutta la sua lunga vita. La vita di questa famiglia intreccia il suo destino con quella della famiglia  vicina, solo un chilometro di strada sterrata li separa, e così, tra nascite, disgrazie e una rara partenza, si snoda attraverso i decenni, la guerra e il dopoguerra. Il racconto comincia dalla fine, potrebbe sembrare un giallo, ma scordiamo presto il finale, riportati come siamo al prima e, soprattutto, al come e al perché.
Se siamo pronti a immergerci in un mondo in cui la natura governa con le sue leggi il duro lavoro nei campi, in cui la corteccia sembra rivestire anche certie persone e se siamo altrettanto pronti ad accettare la malasorte che sembra accanirsi sui personaggi, allora Vincoli è la lettura per noi. Tuttavia non è una vicenda triste, è solo molto umana, iperrealistica, con squarci di generosità e ottimismo sorprendenti.
Edith è indimenticabile per la sua dedizione alla famiglia e l'incapacità di sottrarsi alla disciplina degli affetti.  La voglio ricordare mentre prepara la sua torta di zucca, e guida il trattore e vola in macchina tirando tardi, per una volta. Ma ogni personaggio di questa storia si farà accettare, se non amare, anche soltanto per come viene descritto.

Vincoli. Alle origini di Holt, Kent Haruf (The Tie That Binds, 1984), traduz. di Fabio Cremonesi, Enne Enne Editore, 2018.






sabato 30 marzo 2019

La corsara


Ci sono libri che portano ad altri libri, storie che costringono, per una sorta di piacere puro, a rileggere autori e autrici passati in secondo piano per effetto di un certo consumismo culturale. Ė quello che succede con La Corsara di Sandra Petrignani, biografia di Natalia Ginzburg strettamente intrecciata alle vicende della sua famiglia e alle persone che ha incontrato, amato e perduto, alle sue opere, e ai fatti legati alla casa editrice Einaudi, con tutti i soggetti che hanno avuto in essa un ruolo importante. Una narrazione documentatissima che non prescinde dall'affetto e dai ricordi personali di Petrignani, permettendole una particolare  vicinanza alla scrittrice. Ne scaturisce un ritratto che, pur seguendo una scansione lineare, si sviluppa anche nei rivoli delle varie vite con salti temporali, aneddoti e citazioni.  Ci fa conoscere Natalia Levi da bambina, quando nasce a Palermo, nel 1916, ultima dopo tre fratelli e una sorella, il suo nome scelto dal fratello maggiore Gino, pensando alla protagonista di Guerra e Pace.   Il padre, Giuseppe Levi,  è uno scienziato illustre,  ebreo triestino, la madre è milanese «una donna intelligente, leggera e canterina, Lidia Tanzi, che si consola di aver tradito i sogni d'indipendenza della gioventù riempiendosi la vita adulta di libri, di arte, di cultura».  I Levi hanno avuto i primi quattro figli a Firenze, dopo Palermo si trasferiscono a Torino, nel 1919. Nella loro prima casa c'è anche un giardino, dove Natalia gioca con la bambola Olga e alcuni amichetti, ne parlerà in un racconto dal titolo misterioso, Luna pallidassi, che  si ritrova nella raccolta Mai devi domandarmi e Un'assenza. I suoi fratelli sono già molto grandi, rivendicano le loro istanze e numerose sono le querelle tra loro, che suscitano le ire paterne e vivaci scambi d'opinione,  anche per questo motivo Natalia fatica a trovare un suo posto in famiglia, è timidissima, parla sempre molto in fretta nel timore che gli adulti si stanchino ad ascoltarla. Con sottile cattiveria è soprannominata "Maria Temporala"«perché metteva il broncio» e «impiastro, perché non sapeva vestirsi da sola [...] e lasciava tutto in giro e non era sportiva né studiosa».
Il racconto di Petrignani si sofferma sulle frequentazioni di casa Levi, dove «passa la Storia», le illustri amicizie, il percorso scolastico di Natalia, non particolarmente brillante, ad eccezione dell'ottimo profitto in Italiano e della sua volontà di scrivere, fino ai primi racconti pubblicati.  A ventidue anni sposa Leone Ginzburg,  amico di suo fratello Mario,  un altro casuale riferimento a Tolstoy. Leone  ha ventinove anni, considerato un ex enfant prodige, e ha fondato, con Giulio Einaudi, la casa editrice che tanta parte avrà anche nella  vita di Natalia.  Poi i figli, gli anni del confino a Pizzoli, in Abruzzo, in un mondo diametralmente opposto a quello in cui era vissuta. Cesare Pavese, che ha appena pubblicato Paesi tuoi, fedele al suo «inamabile lavoro di cerbero», le scrive: «Cara Natalia, la smetta di fare figli e scriva un libro più bello del mio». Accanto a Leone, la sera, quando i bambini dormono, Natalia scrive il suo primo romanzo, La strada che va in città, dato alle stampe  con lo pseudonimo Alessandra Tornimparte.  Viene accolto tiepidamente dalla critica, lei  definita troppo «pavesiana o americana».  Sopraggiunge il panico dell'8 settembre, la fuga con i due figli aggrappati alle valigie  e la piccola Alessandra di pochi mesi, in braccio. Con la morte di Leone il dolore  sembra insuperabile e toglie la volontà di vivere. Sola, con tre figli, comincia a lavorare alla sede romana di Einaudi, legge, traduce e scrive, scegliendo il nome Ginzburg per pubblicare, non lo pseudonimo del confino, non Levi, il suo nome parentale, ma quello del marito, per serbarne memoria, giacché lui non poteva più scrivere. Natalia conosce un momento di grande infelicità che la porta alla soglia della vita, la salvano e sceglie di trasferirsi  a Torino, vicino ai genitori. Pavese l'aiuta conferendole incarichi importanti nella casa editrice e lei scriverà su di lui «pagine memorabili», dispiacendosi profondamente per la sua morte. Incontra poi Cesare Garboli, che «per tutta la vita seguirà la sua opera come amico e critico». Sposa Gabriele Baldini, nasce una bambina, Susanna, e poi un bimbo, ma sono segnati entrambi da gravi problemi di salute. Si trasferisce a Londra per seguire la carriera accademica del marito, lì viene a mancare il piccolo, un altro grande dolore. Negli anni che seguono Natalia scriverà libri che la consacrano una delle autrici italiane più importanti del Novecento, compreso il memoir Lessico famigliare, che le vale il Premio Strega nel 1963. Si occupa di teatro per molti anni, a cominciare dalla commedia Ti ho sposato per allegria e scrive due romanzi in forma epistolare, Caro Michele e La famiglia Manzoni. Negli ultimi anni scrive su La Stampa e Il Corriere della sera,  sempre molto caustica e sincera, come piaceva a lei, e occupa un seggio in Parlamento.  La sua scrittura l'accompagna sempre nelle vicende della vita, in una forma tutta nuova, da lei inventata, dice Petrignani, con l'uso di un "noi" , «pudico e assertivo», che le permette un dialogo  insieme più distante e più antico, di una semplicità solo apparente, lontana «dal linguaggio pietistico, o emotivo, o evasivo».  
Dicevo che il libro di Petrignani costringe,  invita,  alla rilettura delle opere di Natalia, ma aggiungo anche a quelle di Pavese, Moravia, Morante, Calvino, Dacia Maraini. Tutte persone con cui lei ebbe rapporti stretti di amicizia, stima  e collaborazione. Quella con Elsa Morante fu però un'amicizia «complessa, spinosa, sbilanciata» perché «erano due donne sincere fino alla brutalità, solo che Natalia accettava senza risentimento le critiche della collega, anche le più feroci, mentre Elsa raramente tollerava di essere contraddetta». Ė un libro denso di fatti, denso di vite, La corsara, non si può ridurlo a elenco senza tralasciare qualcosa e, soprattutto, senza sminuire il  grandioso affresco novecentesco con attori, attrici e figuranti, tutti noti, tutti a loro modo importanti. Su tutto e tutti campeggia la statura di Natalia Ginzburg, sebbene lei abbia  continuato a dubitare di se stessa e delle sue abilità fino alla fine, nonostante i natali borghesi, le frequentazioni scelte e il successo meritatissimo.  «Fin da piccola si era sentita lacerata da quella che lei stessa definiva una "timidezza proterva"». Petrignani sostiene che «conservò sempre un tratto infantile, lo conservò nel carattere e nel modo di esprimersi, nella scrittura e nella calligrafia». L'autrice fa parlare le persone di lei e con lei, in un'interazione che supera  gli anni, le diverse convinzioni, i vincoli familiari e la morte.  La vita di Natalia non le ha fatto sconti e il racconto di questo libro  non tace neppure sugli aspetti più delicati, quelli che la scrittrice celava anche agli amici più cari, ma nelle pagine di questo libro aleggia un rispetto che si nutre di ammirazione e stima.  Sandra Petrignani e Natalia Ginzburg, due scrittrici che si incontrano, si leggono, si sfiorano e si parlano a distanza,  nel tempo, attraverso testimoni, autori  e opere.  Una donna raccontata da una donna, un bel leggere.

La corsara. Ritratto di Natalia Ginzburg, Sandra Petrignani, Neri Pozza Editore, 2018.

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