Quentin Blake per Mathilda di Rohald Dahl

giovedì 19 novembre 2020

Lupini violetti dietro il filo spinato

 


Quando si parla di prigionieri nei campi di concentramento nazisti difficilmente si fanno distinzioni di genere ma il saggio di Katia Ricci si pone in modo critico rispetto la narrazione della vita nei lager, raccontando la storia del campo di Ravensbrűck.

Nato come campo di rieducazione per donne, per volontà di Himmler nel 1938, inizialmente destinato alle tedesche contrarie al regime, vide  rinchiuse anche prostitute, criminali comuni, vagabonde e zingare. Tra loro solo un'esigua percentuale del 10% era di religione ebraica, fino a    quando arrivarono in massa donne e bambini dal ghetto di Varsavia. Sulla divisa portavano un triangolo di stoffa che simbolicamente raffigurava la loro diversità: rosso le politiche, verde le criminali, viola le testimoni di Geova, giallo le ebree, nero le zingare e le cosiddette "asociali". Venti baracche, o Block, ognuna delle quali poteva contenere duecento prigioniere, avendo previsto una capacità del campo di quattromila prigioniere, eppure arrivò a contenerne novantamila nei mesi successivi al 1944, ogni cuccetta contava fino a quattro donne. 

Anche mille italiane ne fecero parte, malviste da tutte le altre perché considerate fasciste. Il campo, come tutte le realtà concentrazionarie, disponeva di due ordini di sorveglianza, una composta  dalle SS che detenevano il potere, l'altra formata da prigioniere, investite del ruolo di guardiane per gestire la quotidianità. Quelle donne ottenevano per loro stesse un livello migliore di trattamento se non esitavano a  infierire sulle  loro compagne. Difficile da accettare, ammette l'autrice, perché abbatte lo stereotipo della bontà femminile.

Nel catalogo di efferatezze che si compirono spicca il famigerato dottor Karl Gehhardt  che inoculava su giovani donne polacche, chiamate "conigliette",  germi di ogni tipo per testare la validità dei sulfamidici. Qualcuna di loro riuscì a far trapelare l'informazione delle sevizie alla famiglia, la Croce Rossa svizzera fu avvisata ma non intervenne in alcun modo. Solo diciotto di loro, protette dalle altre prigioniere, riuscirono a salvarsi, nonostante le SS cercarono di ucciderle per non lasciare testimonianza degli esperimenti.

Eppure, ci rivela l'autrice, a Ravensbrűck, come negli altri campi, era praticata una forma di resistenza creativa e artistica che si esprimeva con disegni, cori, incontri formativi chiamati "conferenze", poesie, piccoli lavori di ricamo, e poi racconti di storie, trame di libri, opere teatrali.  Come i disegni, anche la poesia, così simile alla preghiera per ritmo e profondità, si rivelò un efficace strumento di resilienza. Tutte attività proibite, tanto che la loro scoperta  comportava gravi punizioni.

Il saggio di Ricci si interroga e sottolinea i problemi più frequenti che si presentavano, come le mestruazioni,  la fame cronica, l'assenza di medicine, gli stupri, le molestie. Tuttavia quel  contesto terribile ed estremo  faceva emergere una forza interiore che rafforzava forme di solidarietà tra le prigioniere. Infatti l'amicizia, nel campo, era tutto e si formavano gruppi di mutua assistenza, le cosiddette "famiglie di campo", accomunando le prigioniere per provenienza geografica, ideologia o classe sociale. Erano un valido aiuto per la condivisione del cibo e dei vestiti. E nacquero amori, come quello tra Margarete Buber e Milena Jasenska.

La peculiarità di questo libro sta nell'empatia che si respira tra le righe infatti l'autrice afferma di aver avvertito una particolare vicinanza le donne di Ravensbrűck e stabilisce un paragone fra l'antico dolore femminile,  sottomesse al dominio patriarcale e quello delle donne prigioniere, anch'esse vittime della sopraffazione dell'uomo.

L'evocativo titolo del saggio riprende una frase di Etty Hillesum che, dal campo di Westerbork dov'era rinchiusa, osservava «I lupini violetti stanno là, così principeschi e così pacifici». Nella parte centrale del libro sono raccolte riproduzioni dei disegni eseguite dalle artiste Violette Lecoq, Aat Breuer, Eliane Jeannin-Garreau, France Audoul, Charlotte Salomon, Jeannette L'Herminier, Helen Ernst, Ivonne Uselinger. Testimonianze arrivate fortunosamente a noi, sarebbero costate punizioni, torture, anche la vita delle loro autrici se fossero state scoperte nel campo. «Non si tratta di conservare questa vita a ogni costo, ma di come la si conserva», scriveva  Etty Hillesum, cogliendo profondamente il senso della vita che prevale anche nella reclusione. 

Nel racconto documentato di Katia Ricci la storia del campo di  Ravensbrűck  diventa la storia delle donne di Ravensbrűck che, con il loro mutuo aiuto e le forme dell'arte, insegnano a tutte noi, e particolarmente alle giovani generazioni, ad andare "oltre" il dolore, le meschinità, la violenza, le molestie  e praticare la solidarietà nel senso più vero del termine.

Lupini violetti dietro il filo spinato. Artiste e poete a Ravensbrück, Katia Ricci, Luciana Tufani Editrice, 2020.


pubblicato su

Leggere Donna, n. 189/2020