Quentin Blake per Mathilda di Rohald Dahl

sabato 12 novembre 2016

Ciao Paola

Come se il corpo non avesse più retto al suo entusiasmo per la vita, fine. Paola Azzolini non c'è più.
Lei, italianista dottorata con una tesi su Manzoni, si era presto occupata delle scrittrici di Ottocento e Novecento, Matilde Serao, Morante, de Cespedes, Banti, Cialente, Ortese. Fino a curare la pubblicazione integrale delle lettere d'amore di Ottavia Arici al poeta Aleardo Aleardi, dando voce e incredibile spessore a una donna altrimenti in ombra.
Chi è stata Paola, di quale energia fosse capace, lo sanno bene le svariate associazioni di cui ha fatto parte, nella sua città, Verona, collaborando con la Società Letteraria, il Circolo dei Lettori, Il Circolo della Rosa, l'Accademia di Agricoltura, Scienze e Lettere, per citarne alcune.
Ma Paola si è fatta conoscere anche da un pubblico più vasto scrivendo affilate critiche letterarie sulle pagine culturali de L'Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza, Brescia Oggi, e sulla rivista Leggere Donna.
Ci restano i suoi saggi, i numerosi articoli e, in tutta la sua opera, la cura delle parole. Mai grevi e pompose, sempre fruibili da tutti, nel grande amore per la letteratura.
Ciao Paola, ciao e grazie.

grafia è un omaggio della Biblioteca Civica di Verona, dove Paola svolge
La seguente bibliova molte delle ricerche che nutrono i suoi libri.
Aggiungo solo, perché mi pare manchi, il saggio La scabrosa libertà, contenuto nella ristampa de L'approdo invisibile, di Grazia Livi, per i tipi de L'Iguana Editrice, Verona 2015.

http://abv.comune.verona.it/bibliografie/autori/paola-azzolini/

un ricordo di Paola Azzolini è stato pubblicato su 
Leggere Donna n°174/2017

lunedì 7 novembre 2016

Sulle presentazioni dei libri


Sulle presentazioni dei libri, che dire?
Potrebbero non essere soporifere, magari.
Potrebbe, l'eventuale regia, prevedere momenti di dialogo, lettura e domande, magari.
Potrebbe, chi legge, se legge, usare un tono accattivante, non predicatorio o professorale, magari.
Potrebbero rivolgersi/aprirsi a un pubblico più vasto degli amici e colleghi dell'autore/autrice, magari.
Potrebbero, interlocutori e interlocutrici, non analizzare in modo scolastico/esegetico il testo, magari.
Potrebbero svolgersi, le suddette presentazioni, in luoghi meno angusti di sotterranei e simili, magari.
Potrebbero, semplicemente, cessare di chiamarsi "presentazioni" e adottare il termine "incontri con l'autore/autrice", stabilendo la priorità del contatto umano, magari.
Potrebbe, il prodotto libro, perdere la sua presunta sacralità accademica e (ri)diventare un oggetto, ancorché speciale che promuove cultura, magari.
Potrebbero, dico le presentazioni,  diventare occasioni di promozione della lettura?(e vai con la rima!) Magari.

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giovedì 20 ottobre 2016

Gocce di veleno

Gocce di veleno stillate da minacce e umiliazioni. La violenza non passa soltanto attraverso le percosse e le ferite, lacera profondamente anche quando è sottile, camuffata in eleganti appartamenti, cene raffinate e intrigante biancheria intima.
Claudia, la protagonista del romanzo, come molte altre donne, non riesce a identificare il pericolo nel rapporto che la lega al suo Barbablù e si lascia sommergere progressivamente, fino a perdere, quasi, il rispetto di sé. Dovrà poi cercare aiuto a un centro antiviolenza e intraprendere un arduo percorso per uscire dalla paura, riposizionando figure parentali e scoperchiando rimosse memorie infantili.
Difficile, doloroso, ma non impossibile per Valeria Benatti, l'autrice, giornalista e voce storica di RTL 102.5 da sempre impegnata in problematiche sociali.  Questa storia, calibrata nei toni, mai troppo ansiogena, svolge una parabola positiva a partire dalla quotidianità, letta da un sentimento fuorviato che sembra amore, fino a giungere alla consapevolezza del pericolo e alla strategia per evitarlo. Una storia per accompagnare con grazia e rispetto  le donne che si identificano in Claudia.


Gocce di veleno, Valeria Benatti, Giunti 2016.
Una parte dei proventi derivanti dalla vendita del libro sarà devoluta dall'autrice e dall'editore al centro antiviolenza Cerchi D'acqua (cerchidacqua.org).

giovedì 13 ottobre 2016

Piccolissimo me



Un punto di vista dal basso, non solo perché è un bambino che narra, ma perché è un bambino piccolo, nel senso di basso, ed è una prospettiva da cui non può prescindere perché gliela ricordano continuamente le persone, le situazioni e gli oggetti che lo circondano.
Gigliola Alvisi, con una genesi lunga più di un anno, ha prodotto una scrittura fresca, accattivante e piena di trovate come, ad esempio, il medico endocrinologo che diventa il bassologo agli occhi di Michelangelo, il piccolo, anzi piccolissimo protagonista. Insieme alla statura, lo aspetta anche l'arduo compito di gestire un nome impegnativo, Michelangelo Silva de Olivera perché «le disgrazie non vengono mai sole». Del resto è figlio di due giganti pallavolisti, conosciutisi ai giochi olimpici di Atene, che non sanno proprio capacitarsi di questo loro bimbo minuscolo, preferiscono ignorare il problema e, così facendo, gli danno la sensazione di ignorare anche lui.
Però Michelangelo ha la sua scappatoia affettiva: andare in vacanza dai nonni. Infatti, ogni giorno deve confrontarsi con compagni e compagne più alte di lui e persino con le loro mamme, che parlano disinvoltamente di percentili di crescita mentre lui sa di essere praticamente «fuori dal grafico». Ma nell'agriturismo dei nonni, in Toscana,  «in mezzo al niente» si sente finalmente «al sicuro». Sembra di udire la sua voce, con la sua inespressa domanda di aiuto che si infrange contro il muro di difesa eretto dai suoi genitori, incapaci di accogliere la diversità del loro bambino. Invece i nonni, nel loro distacco generazionale, vedono con maggiore chiarezza la gravità del problema e trattano il nipote per quello che è, limiti compresi.
Ma non è tutto, il libro si apre a sviluppi inattesi e inchioda alla lettura perché arriva come ospite un'eccentrica miliardaria, tale Bianca Black, bassina a dir poco anche lei e con il vezzo di indossare incredibili cappelli, vere e proprie mastodontiche architetture a tema. Michelangelo resta senza parole. E qui l'autrice tesse un filo sottile fra Michelangelo e la signora, imbastendo un rapporto foriero di opportunità positive per entrambi. Ne risulta una storia credibile, sostenuta da illustrazioni in un bianco e nero molto narrativo e aderente al testo.
Un romanzo leggibile e fruibile in classe perché vi si indaga il limite della cosiddetta normalità e come questa possa essere letta in tanti modi. Per i bambini e i genitori che non hanno la fortuna di incontrare un angelo inaspettato come Miss Black, Gigliola Alvisi fa conoscere l'operato di A.Fa.D.O.C. onlus (Associazione Famiglie di Soggetti con Deficit dell'Ormone della Crescita ed altre Patologie), promuovendo, con Cinzia Sacchetti, presidente dell'associazione, il Tour della Tenerezza: un viaggio negli ospedali italiani. 
Gigliola Alvisi ha scritto altre opere per ragazzi e ragazze, tra cui Ilaria Alpi. La ragazza che voleva raccontare l'inferno (Rizzoli, 2014) e Giacomo Matteotti. Una morte annunciata (In Edibus, 2014). Con questo romanzo ha vinto il Premio Letterario Il Battello a Vapore 2015.


Piccolissimo me, Gigliola Alvisi, Piemme, 2016.

lunedì 12 settembre 2016

La beauty farm della cultura


Una definizione comica del Festivaletteratura, dell'attrice e scrittrice Lella Costa, che allude all'esorbitante offerta culturale piovuta, a cielo più o meno aperto, dal 7 all'11 settembre, a Mantova. Ce n'era per tutti i gusti e per tutte le età, da tuffarcisi, code permettendo, ça va sans dire. Arrivato pimpante alla ventesima edizione il Festival, senza un filo di stanchezza, ha proposto qualcosa come duecentonovantun eventi, animati da trecentonovantotto tra autrici, autori, conduttori e conduttrici. Per tacere delle centinaia di volontari in maglietta blu che a piedi, o in bici, si spostavano da un capo all'altro della città, mentre i turisti della lettura, più o meno spaesati, rincorrevano gli appuntamenti sotto un sole improbabile per settembre. Numeri da capogiro, a cui si sommano le decine di location rintracciate tra chiese, corti, musei, cinema, palazzi... nel cuore antico di Mantova.
E tutto si poggia sui libri e la voglia di leggerli.
Ah, sì, anche sul mercato del libro, come dimenticarlo?

Seguono appunti e solo appunti agrodolci (perché anche la cronaca stanca), qui si parla solo di scrittura, moda, traduzione e brughiere. Brughiere? Vedremo.

Beatrice Masini e Bianca Pitzorno, acclamate scrittrici per l'infanzia, ciascuna con decine di titoli pubblicati, hanno animato un incontro dal titolo sibillino Scrittrici. In realtà, Pitzorno introduceva e chiosava Masini sull'ultima sua opera I nomi che diamo alle cose. Si coglie una continuità rispetto al precedente, Tentativi di botanica degli affetti, anche qui il paesaggio incornicia la storia e i personaggi, ma la protagonista compie un percorso diverso, spostandosi da Milano a una località sul lago di Garda che, per Masini, è il "luogo degli affetti". Dietro ai nomi che diamo alle cose, suggerisce Pitzorno, brilla un'idea che emerge dopo la lettura, infatti  i nomi non sono casuali e la raffinatezza della prosa di Masini la estranea dallo stereotipo dolciastro in cui si intrappola l'autore o autrice per l'infanzia. Scrivere per adulti o per l'infanzia, in fondo,  non è molto diverso, ammette Masini, perché "comanda la storia", soltanto non si può dimenticare quali siano gli argomenti di interesse. L'ultimo libro di Pitzorno, La vita sessuale dei nostri antenati, per esempio,  tratta di vecchiaia, malattia, di "volgersi indietro", tutti temi che non sono propri dell'età infantile.



Un red carpet (che fa pensare più al cinema che alle passerelle) guida all'interno de La Biblioteca Elegante, uno spazio espositivo di oltre trecento volumi, per raccontare le sinergie tra moda e letteratura, industria e arte. Volumi introvabili,  con il fascino delle prime edizioni scolorite dal tempo, alcuni out of print da decenni, accanto a raffinati e patinatissimi coffee table books.
Qualche titolo?
Il cappotto di astrakan, di Piero Chiara (1978).
La cronachetta delle pellicce, di Gabriele D'Annunzio (1884).
Elogio della cravatta, del conte Giovanni Nuvoletti (1982).
Sotto il vestito niente, di Marco Poma (1983).
La vita bassa, di Alberto Arbasino (2008).
...

La complessa attività del tradurre è stata oggetto, anche quest'anno, di un apposito evento, collocato nella Chiesa di Santa Maria della Vittoria.
Il gruppo di traduttrici, che fanno capo all'Asscociazione MonteverdeLegge, erano Adelaide Basile, Fiorenza Mormile, Anna Maria Rava, Anna Maria Robustelli e Paola Splendore.  Attraverso le loro voci, Translation Slam ha raccontato la genesi della traduzione collettiva di un'opera di Philip Schultz, Erranti senza ali, tratta da Failure, che gli valse il Premio Pulitzer nel 2008. Splendore sottolinea il lavoro di cesello, la mediazione incessante tra le diverse interpretazioni delle traduttrici, "la cura artigianale al servizio della parola poetica". In sedute successive, compiendo scelte non semplici di tipo lessicale e di registro, si è compiuto un lavoro a più mani, quasi "un antidoto naturale alla solitudine cronica del traduttore".


Stefania Bertola ha presentato (quella chiacchierona di) Lyndall Gordon in Dalle brughiere dello Yorkshire, titolo pretestuoso per promuovere il suo Charlotte Bronte. Una vita appassionata. Scontato l'accostamento con l'altra celebre biografia di Charlotte, scritta da Elisabeth GaskellLa vita di Charlotte Bronte,  peccato ne venga data una lettura riduttiva, limitata alla Charlotte squisitamente vittoriana, conformista. Bertola si sbilancia persino in un giudizio negativo sulla stessa Gaskell, "così noiosa", dimenticando (?) i suoi importanti romanzi di denuncia sociale. Bertola si è giocata diversi punti in
meno nella mia considerazione (per quanto possa valere).
E la tesi di Lyndall, volta a far emergere la natura passionale di Charlotte, entusiasta, innamorata della vita, curiosa e critica, nulla di nuovo perché già il volume di lettere pubblicato nel 2015 da L'Iguana, Ho tentato tre inizi. Lettere 1847-1853, sottolineava proprio questi aspetti, insieme all'insopprimibile desiderio di scrivere.
Insomma, Charlotte frequentava la brughiera, attratta, forse, dalle sue atmosfere cupe e, dalla canonica isolata in cui abitava, le sarebbe stato impossibile fare altrimenti, ma viveva intensamente il suo tempo, ne coglieva i fermenti e le contraddizioni, insofferente dei limiti che le imponeva come donna e come scrittrice.
E le due biografie sono entrambe preziose, parola (opinabilissima) di Lauradeilibri.




I nomi che diamo alle cose, Beatrice Masini, Bompiani, 2016.
Tentativi di botanica degli affetti, Beatrice Masini, Bompiani, 2015.
La vita sessuale dei nostri antenati, Bianca Pitzorno, Mondadori, 2015.
Erranti senza ali, Plilip Schultz, traduzione di Adelaide Basile, Fiorenza Mormile, Anna Maria Rava, Anna Maria Robustelli, Paola Splendore, a cura di Paola Splendore, Donzelli, 2016.
Charlotte Bronte. Una vita appassionata (A Passionate Life), Lyndall Gordon, traduzione di Nicola Vincenzoni, Fazi Editore, 2016.
Ho tentato tre inizi. Lettere 1847 - 1853, Charlotte Bronte, traduzione e cura di Sara Grosoli, L'Iguana Editrice, 2015.
La vita di Charlotte Bronte (The Life of Charlotte Bronte), Elisabeth Gaskell, traduzione di Simona Buffa di Castelferro, Castelvecchi, 2015.

giovedì 4 agosto 2016

Donne che viaggiano

Nomadi per scelta o migranti per necessità, anche le donne viaggiano e hanno viaggiato, ma parlarne è argomento che apre un tavolo di discussione su cosa sia il viaggio: scoperta, esplorazione, introspezione, turismo, formazione, dolorosa migranza...
Certamente viaggiatrici, tra Ottocento e Novecento, sono state Gertrude Bell e Freya Stark, Alexandra David-Néel e Nellie Bly e, per certi aspetti, anche Karen Blixen e Simone De Beauvoir.
E le italiane?
Nel racconto al maschile del mondo esplorato quali sono le voci italiane femminili?
Mi avvicino a questo ipotetico tavolo di discussione cominciando a parlare di Freya Stark (Parigi 1893 - Asolo 1993) annoverata tra le viaggiatrici britanniche, seppure sia vissuta lungamente nel nostro Paese, ad Asolo, dove riposa per sempre, accanto a Eleonora Duse. Figlia di due artisti, un pittore inglese e una musicista polacca, crebbe in ambiente
cosmopolita e cominciò a studiare l'arabo dopo la fine della prima guerra mondiale, subendone la fascinazione per tutta la vita.
Viaggiò in Iran, attraversò il Deserto Arabico ed esplorò il Medio Oriente, scrivendo più di venti libri, solo pochi dei quali disponibili in italiano.
Uno dei più famosi è questo Lettere dalla Siria (Letters from Syria) pubblicato a Londra nel 1942, ma riferito a un viaggio compiuto tra il 1927 e il 1929. La Grande Siria era allora quel territorio, comprensivo del Libano, sotto mandato francese in seguito alla spartizione dell'Impero Ottomano seguita al conflitto. Per usare le parole dell'autrice, rappresenta il suo "primo, sottile, distratto entusiasmo con cui i miei occhi, che non avevano mai lasciato l'Europa, si spalancarono sull'Oriente. Questo Oriente è divenuto ora parte della trama della mia esistenza, intima e familiare".

Lettere al padre, alla madre, alle amiche,  durante un viaggio iniziato a Venezia e concluso a Gerusalemme, annotando accuratamente caratteristiche e particolarità architettoniche e storiche dei luoghi, oltre alle qualità umane delle persone. Sempre con un tocco British: quella speciale distanza fatta di stupore e meraviglia, mista a un'incredibile capacità di adattamento, che non preclude il coinvolgimento emozionale nell'approccio umano, semplicemente permette l'osservazione.
Mia cara B, indirizza alla madre, Mia carissima Venetia, all'amica poi compagna di viaggio da Damasco a Gerusalemme, Cara B, mio tesoro, ancora alla madre, Carissimo Papi, al padre.
Un diario epistolare che non risparmia giudizi precisi sui drusi, sui militari francesi, sui musulmani.
"[...]dopo aver constatato il rispetto e la cordialità dei drusi, abbiamo sentito in maniera piuttosto acuta la nostra inferiorità femminile tra i musulmani".
Freya viaggia su schiena d'asino, non cerca la compagnia degli occidentali e non le interessano gli esotismi, ricerca piuttosto, con la conoscenza della lingua araba, di penetrare lo spirito del luogo.
E, alla conclusione del viaggio, "Com'è stato tutto bello: le scomodità svaniscono, per lo meno dalla memoria attiva e resta e cresce la bellezza di tutto ciò che abbiamo vissuto".

Lettere dalla Siria (Letters from Syria), Freya Stark, traduz. di Daria Angeli, La Vita Felice 2014.



giovedì 30 giugno 2016

Polveri di luna

Ma sarà vero che esistono letture più estive di altre? Ogni anno, all'affacciarsi del caldo, riviste e siti di vario tipo ripropongono l'interrogativo a cui seguono i dieci libri da leggere assolutamente. 
Niente di tutto ciò, da queste parti. Il filone di lettura proposto da Lauradeilibri tocca le corde più varie ed è come il blu: si adatta a tutte le situazioni. Ecco quindi Polveri di luna, da leggersi dove e quando vi pare, it's up to you.
La protagonista è una medica, in un tempo in cui le donne accedevano con difficoltà a tale professione ed erano viste con diffidenza nell'esercitarla. Siamo in pieno fascismo e il libro propone un'accurata ricostruzione storica che mette in luce anche la positività delle azioni politiche rivolte al sociale. La dottoressa Clelia Lollini è figlia di una femminista e di un socialista, tuttavia si convince che il fascismo, dopo la prima fase, abbia abbandonato i toni cruenti e sappia essere propositivo nella risoluzione dei problemi. Tra le iniziative lodevoli del regime si annovera la creazione dei Consorzi Antitubercolari, in tutto il Paese e, a dirigere quello di Massa, viene chiamata, per concorso, proprio Clelia che, al tempo, ha già contribuito a fondare l'AIDM (Associazione Italiana Donne Medico), in seguito sciolta come tutte le altre libere associazioni. Massa è in piena espansione edilizia, collegata a Roma, Firenze e al Nord d'Italia, è anche terra in cui i fermenti anarchici e socialisti sono stati sedati dalle spedizioni punitive ma, attorno al 1930,   il regime vuole ottenere il consenso promuovendo mastodontici lavori pubblici che diminuiscano la disoccupazione. Un lavoro di responsabilità attende Clelia, sotto gli occhi critici di tutti ma lei, seria, preparata e motivata non è tipo da spaventarsi. Si installa nella sua nuova casa, comincia a esplorare il luogo e a conoscerne le personalità di spicco, tra cui l'avvocato Aldo Manconi e il Podestà, di nomina governativa. Tra Clelia e Aldo nasce e cresce un legame affettivo oltre le convenzioni, anche sfidandole, intrecciato alle emozioni quotidiane, alle preoccupazioni lavorative e familiari e all'impegno sociale.
Clelia "non si scoraggiava; le piaceva affiancare alla normale attività delle iniziative diverse, rivolte ai giovani e alle donne in particolare e cercava comunque di portare avanti lavori che non richiedessero fondi aggiuntivi" (pag.189).
Puntuali sono le descrizioni degli ambienti lavorativi e delle procedure di estrazione del marmo.
"Un pulviscolo fine e impalpabile si levava dal taglio man mano che si approfondiva e Clelia l'osservò con apprensione". 
E' di marmo la polvere di luna del titolo, responsabile della temibile silicosi, patologia molto diffusa tra gli operai.
"I cavatori lavoravano a mani nude davanti a un mostro di parecchie tonnellate pericolosamente inclinato. Il capolizza, dritto proprio di fronte alla carica, dava gli ordini a voce alta e gli uomini eseguivano in silenzio con la massima celerità. I mollatori erano sdraiati vicino ai piri, con i piedi puntati contro il terreno sassoso, la schiena gettata all'indietro e le mani serrate ai canapi che allentavano e stringevano alternativamente. Erano uomini giovani, scelti evidentemente tra i più robusti, ma lo sforzo e la tensione gli stravolgevano il volto in una maschera dolorosa" (pag.50).
Emerge, nel racconto sul gruppo di Giustizia e Libertà a Parigi, il ruolo dell'infiltrato Dino Segre, scrittore conosciuto con lo pseudonimo Pitigrilli, agente dell'OVRA (Organizzazione per la Vigilanza e la Repressione dell'Antifascismo), che spiava i compagni fingendosi loro amico, mentre redigeva rapporti con "la vivezza di un testo letterario, ma la meschinità di una denuncia" (pag.127).
L'autrice, Silvia Mori, è pronipote di Clelia e racconta, con la nitidezza della storica e l'empatia che si riserva agli affetti più cari, cent'anni d'Italia, in una trilogia iniziata con Contra' di mezzo (2010), seguita da La dama del quintetto (2012) e conclusa con questo Polveri di luna (2014). Una lettura incalzante e, per molti aspetti, sorprendente.

Polveri di luna, Silvia Mori, Luciana Tufani Editrice 2014.

mercoledì 22 giugno 2016

Il giudice delle donne


Dalla realtà al romanzo, senza dimenticare i fatti e sottolineando la matassa dei diritti e dei sentimenti in gioco. Sembra essere l'operazione letteraria compiuta da Maria Rosa Cutrufelli nel suo Il giudice delle donne che prende lo spunto dall'azione intrapresa da un gruppo di maestre marchigiane, nel 1906, per ottenere l'iscrizione alle liste elettorali. Un'operazione osteggiata da mariti, famiglia e tessuto sociale al completo perché in odor di ribellione dallo status quo che voleva le donne sottomesse e senza voce alcuna.
Un romanzo che sa di buono e cade, a proposito, al compleanno di una repubblica settantenne, la nostra, ancora gravata da alcune lacune per il riconoscimento pieno delle pari opportunità alle donne. Il libro di Cutrufelli ci riporta al primo Novecento e ci costringe a ripercorrere la storia di un diritto per il cui raggiungimento si sono adoperate molte donne. Come Alessandra, la protagonista del romanzo, una "maestrina", secondo la vulgata del tempo, orgogliosa dei suoi studi alla Normale, che si avventura a insegnare nella scuola elementare di Montemarciano e va a vivere nella casa di «un vecchio avvolto fino ai piedi in una zimarra da stagnaro» e della sua nipote undicenne, Teresa «carina se non avesse avuto certi capelli arruffati, da selvaggia». Immediata scatta la simpatia per quella bambina trascurata, orfana, impegnata in lavori troppo pesanti per la sua età.
Per Alessandra è tutto nuovo e non semplice: vivere lontano dalla sua casa, in un piccolo paese, sostenere la sua motivazione all'indipendenza economica e trovare una misura per rapportarsi correttamente con le colleghe e il direttore didattico. Non a caso, le ultime parole di sua madre, nell'accompagnarla, suonano minacciose: «Non esporti, per carità! Dammi retta: una donna che lavora, tanto più se maestra, è sempre sotto esame».
Narrati in prima persona, si susseguono i capitoli con la voce di Teresa, Alessandra e Adelmo, il fratello di "un'amica di famiglia". Punti di vista diversi concorrono a formare un quadro con  personagge e personaggi tutt'altro che secondari, come Luigia, anche lei maestra e moglie del sindaco, che visita i paesi vicini per raccogliere il consenso di altre maestre a iscriversi alla lista elettorale. Alessandra, perché troppo giovane, non può partecipare con la sua firma, ma si attiva in ogni modo, partecipa alle riunioni, argomenta, si entusiasma. Contrariamente alle previsioni di tutti, il giudice della Corte d'Appello di Ancona, Lodovico Mortara, approva infine la loro richiesta. Il giudice delle donne.
Tuttavia il romanzo va oltre e intorno a questa vicenda, disegnando anche la vita grama dei poveri più poveri, dei bambini straccioni, delle scuole fatiscenti che crollano sotto il peso della pioggia.
Maria Rosa Cutrufelli, già nota per aver scritto saggistica e narrativa, in questa sua opera coglie i particolari del quotidiano e del personale, dell'infanzia e dell'affacciarsi all'età adulta con tante illusioni pronte a sbattere contro il muro delle ostilità e dei pregiudizi imperanti. E qua e là filtra una speranza: il futuro non può fare a meno della forza delle donne.

Il giudice delle donne, Maria Rosa Cutrufelli, Frassinelli 2016.


lunedì 20 giugno 2016

Non smetto di avere freddo

Una storia di "se" e di freddo. Un freddo che abita prima il cuore, poi l'orfanotrofio, poi il carcere e prosegue tutta la vita, mai placato da maglioni anche pesanti.
Orfanatrofio e suore, una bambina bella e buona, Dorina, e una brutta e cattiva, Angela.
Dorina ha un sogno, riappropriarsi della sua vita, contemplando sia l'amore che la realizzazione professionale: aprire un ristorante tutto suo, perché la passione per la cucina è cominciata assistendo suor Ermelinda nella preparazione delle sue "ricette speciali". Intanto, per contribuire al bilancio familiare, prepara i pasti per le detenute di un carcere. In un angolo della sua mente, è rimosso il suo passato, ma affiora con prepotenza quando rivede Angela e si ristabilisce il rapporto di amicizia e potere che le aveva unite nell'infanzia. Gli altri, marito, amiche, colleghe, non possono capire l'urgenza di una richiesta d'aiuto che ricorda l'asprezza dei geloni, delle punizioni e delle lacrime infantili.
Concepito con una narrazione ritmata dai salti temporali e dal racconto in prima e terza persona, il romanzo di Emilia Bersabea Cirillo presenta quarantotto capitoli contrassegnati da un titolo, non genericamente da un numero e questi, letti in sequenza, bastano ad alimentare la curiosità, il resto lo induce la prosa, talvolta cruda ma sincera, anche delicata e struggente.
Un romanzo che tocca nervi scoperti, disturbante, inchioda il pensiero su temi quali l'adozione, la chiusura delle fabbriche, l'emigrazione, l'impegno sindacale, Tuttavia, l'analisi puntuale delle situazioni non teme la contaminazione delle chiacchiere superficiali, si può accostarlo con semplicità per farsi toccare dalla sua grazia.

Non smetto di avere freddo, Emilia Bersabea Cirillo, L'Iguana editrice 2016.

pubblicato su
Leggere Donna n°172/2016

martedì 7 giugno 2016

Autobiografia di una femminista distratta

Ho mantenuto (in tempi quasi brevi!) la mia promessa: ho letto Autobiografia di una femminista distratta di Laura Lepetit. Confesso di averla accostata con una discreta titubanza e di essermi poi liberata da ogni remora. Temevo una narrazione di memorie con digressioni teoriche, invece ho trovato un racconto quietamente emozionale. Ragion per cui non saprei dire se la mia lettura sia stata sufficientemente critica ma, valendomi della libertà che sempre esercito in questo (mio) ambiente, convengo di averne fatto una lettura, a mia volta, emozionale. Perché è il racconto di una vita, senza rigore cronologico, punteggiato piuttosto dagli incontri, dai libri, dai luoghi e dalle esperienze fondamentali che l'hanno reso qual è, regolato dagli affetti, nel senso più ampio del termine.

Ecco come sono fatti i ricordi, restano quelli che hanno segnato il nostro percorso, gli altri scompaiono anche se sono importanti, anche se ci abbiamo perso tanto tempo. Meglio così, viaggiare leggeri, andare sempre avanti fa stare meglio. (pag. 122)

Recentemente avevo letto, restandone profondamente delusa, Via Ripetta 155, di Clara Sereni, trovandolo amaro e contradditorio, se paragonato a Casalinghitudine, un'operazione di scrittura assimilabile al gesto di - togliersi un sassolino dalla scarpa - insomma spiacevole.
Niente di tutto questo nell'autobiografia di Lepetit che, senza enfasi e senza preoccuparsi di ricordare tutte e tutti, rende omaggio alle autrici che ha incontrato, pubblicato e amato. E poi alle sue collaboratrici, alle amiche, a Carla Lonzi, di cui dice:

Non posso far altro che definire la mia conoscenza di Carla Lonzi come l'incontro che ha cambiato la mia vita. (pag. 58)

Di Lepetit è nota la sua storica casa editrice La Tartaruga, che ha pubblicato libri di scrittrici dal 1975 al 1997, a volte assolutamente inediti come Le tre ghinee di Virginia Woolf, o l'autobiografia di Gertrude Stein, tradotta da Fernanda Pivano e rifiutata da Einaudi. Diventata una pietra miliare della diffusione del pensiero e della letteratura femminile e femminista, con i suoi duecentosettasei libri pubblicati, in questo suo testo appare come una donna che fa tesoro del passato e offre del tempo trascorso e che le rimane, una prospettiva insolita e realistica.

E' una stagione che ha le sue peculiarità, ancora da capire. Mi viene da pensare che sia simile all'adolescenza, un tempo di attesa di qualcosa che non si conosce. Nell'adolescenza era l'attesa della vita, nella vecchiaia l'attesa della morte, un altro cambiamento, un territorio ignoto dove inoltrarsi senza sapere nemmeno quando e come. (pag. 9)
E ancora:
Che differenza c'è tra l'essere giovani e l'essere vecchi? Una sicuramente l'ho trovata. Si tratta del tempo. Quando si è giovani il tempo pare senza fine, lunghissimo, praticamente infinito, alla mia età so bene che il tempo sarà breve, ma è pur sempre un tempo. (pag. 23)

Un soffio d'aria pura il suo messaggio alle donne, nei confronti della figura materna, continuamente sezionata e chiamata in causa.

[...] per colpa della psicanalisi e dintorni e di tutti i manuali e i consiglieri e gli studiosi, il concetto di maternità è diventato oscuro e difficile [...] la mamma, centro di ogni virtù, responsabile di ogni sciagura, priva di pecche e peccati, disponibile, irraggiungibile, sempre in casa, sempre al lavoro, eternamente afflitta da sensi di colpa, amabile, odiabile [...] è diventata così ingombrante che non c'è nessuna ricicleria pronta ad accoglierla. (pag.41)

Persino l'autocoscienza, bandiera della pratica femminista e barriera per chi ne era esclusa, diventa esperienza facilmente condivisibile.

Ci si trovava tutti i giovedì verso le sei del pomeriggio, all'inizio a casa di Carla e poi anche in altre case a turno, e ci si sedeva in cerchio a parlare. Parlare di sé, raccontare sensazioni, confrontare esperienze senza riguardo a età, classe o condizione sociale. L'essere donna formava il substrato comune, rivelava più somiglianze che differenze  [...] Dopo le riunioni [...] si andava tutte insieme a mangiare una pizza nella stessa pizzeria sotto casa. (pag.60)

Lepetit sostiene essere La Tartaruga la sua opera principale, e di aver scritto di sé non avendo idea  da dove cominciare, ma esorta tutte le donne a scrivere, senza preoccuparsi di dover necessariamente dire qualcosa, piuttosto, riferendosi alla sua esperienza, narrare dettagli come:

Un cartoccio di pesce, un pavone nel lago, un lavandino pieno di piatti sporchi. Raccontiamoci le nostre storie per non vivere di riflesso [...] pag. 121)

Nelle sue pagine non ho colto rimpianti,  solo un leggero sottolineare:

[...] i titoli del catalogo della Tartaruga sbucano come narcisi a primavera nei cataloghi di tanti editori. Che vuol dire? Che i libri di qualità vivono a lungo? Forse che sono stata brava, ma nessuno lo dice. (pag. 78)

Sei stata brava, te lo riconosciamo noi, le tue lettrici.


Autobiografia di una femminista distratta, Laura Lepetit, Nottetempo 2016.
Via Ripetta 155, Clara Sereni, Giunti 2015.
Casalinghitudine, Clara Sereni, Einaudi 1987.
Le tre ghinee (Three Guineas, traduz, di A. Bottini),  Virginia Woolf, La Tartaruga 1975.
Autobiografia per tutti (Everybody Autobiography, traduz. di Fernanda Pivano), Gertrude Stein, La Tartaruga 1976.






sabato 4 giugno 2016

Nutrirsi di Dio


Se l'uomo è ciò che che mangia, per Ludwing Feuerbach (1804-1872), oggi è più calzante dire, per Anna Momigliano, "l'uomo è ciò che non mangia". Sono infatti svariate le correnti di pensiero legate al cibo e tutte proibiscono qualcosa: vegetariani, vegetaliani, gluten-free, vegani, paleodiet, anti OGM, breathariani...
Nell'epoca dell'abbondanza, caduti o svalorizzati i tabù religiosi, il simulacro di Dio è diventato il corpo, da cui il suo culto declinato tra estetica, dietetica e chirurgia. Alla ricerca del presunto benessere, fino all'ortoressia, vero e proprio disturbo alimentare, paragonabile all'anoressia, caratterizzata dall'ossessione del "mangiar sano" e "naturale", concetti di ambigua definizione.
Selene Zorzi invita a considerare le regole alimentari in rapporto alla vita monastica e le affinità tra cibo e desiderio. Considerando la fame quale prima forma di desiderio, la vita claustrale, diventa "il modo di educare il desiderio per rendere possibile l'incontro con Dio". Nessuna prescrizione dal Vangelo, anzi esortazione a cibarsi di quel che si trova. Pertanto la regola benedettina volge lo sguardo non al cosa  mangiare, ma al quanto e quando. Quindi digiuno, astinenza e peccato di gola inserito tra i vizi capitali. Tre le mense conventuali: quella religiosa (chiesa), quella spirituale (biblioteca), quella fisica (mensa), a significare l'unità di anima, mente e corpo unificate dal chiostro, simbolo della vita monastica. E poiché ci nutriamo di idee, non meno che di cibo, alla mensa benedettina non mancava mai il lettore. Zorzi sottolinea anche l'intreccio di sostanza e spirito del cibo, si vedano i principali gesti di Gesù, compiuti a tavola, e la valenza cosmica che assume l'Eucaristia, diventando il mezzo attraverso cui si manifesta il suo amore.

Per autori come Marino Niola (Homo dieteticus.Viaggio nelle tribù alimentari, Il Mulino, Bologna 2015) e Alan Levinovitz (The gluten Lie, Regan Arts, NY 2015) la dieta del mangiar sano è un sostituto della religione e, con le sue pratiche di allontanamento da sé di quanto può contaminare il corpo, si può assimilare alle pratiche religiose più arcaiche.
Momigliano suggerisce anche l'espressione "il dilemma dell'onnivoro", in cui sembrano dibattersi i contemporanei: molto cibo a disposizione, ampia offerta, non più osservate regole superiori etiche e religiose, esplode il dilemma della scelta, che genera ansia e conseguente bisogno di controllo.
Allora siamo tutti ortoressici? 
Il Centro Studi Fondazione Campostrini ha proposto all'attenzione il tema trasversale del consumo di cibo, con le sue implicazioni antropologiche, filosofiche e religiose. Occasione di approfondimento e riflessione, coordinato da Damiano Bondi..
Centro Studi Fondazione Campostrinihttp://www.centrostudicampostrini.it/page.php?sez=3&l1=249&con=732&anno=2016&l3=74

L'uomo è ciò che mangia, Ludwig Feuerbach, a cura di Francesco Tomasoni, Morcelliana 2015.
Homo dieteticus. Viaggio nelle tribù alimentari, Marino Niola, Il Mulino 2015.
The Gluten Lie, Alan Levinovitz, Regan Arts 2015.

venerdì 3 giugno 2016

Donne perdute




Non molto tempo fa, le "donne perdute" erano contrapposte alle "donne oneste" e, secondo l'opinione pubblica, assolvevano persino a una funzione sociale ed educativa rispetto i giovani. Che poi queste "donne perdute" fossero, di fatto, rinchiuse nelle cosiddette "case di piacere", o "case chiuse", o "case di tolleranza", schedate e spostate di città, di fatto schiavizzate,  serviva a tutti per relegare, in un angolo della mente, un aspetto della vita con implicazioni morali imbarazzanti. Erano, tali luoghi,  anche "la più sicura garanzia" per "la Fede cattolica, la Patria e la Famiglia", secondo Indro Montanelli, ancora nel 1959.
Lina Merlin (1887 - 1979) fu la coraggiosa sostenitrice dell'abolizione delle "case chiuse", e redattrice della legge del 20 febbraio 1958 n. 75, ricordata con il suo nome,
Daria Martelli, partendo dalle lettere di queste donne alla senatrice Merlin (Lettere dalle case chiuse, a cura di Lina Merlin e Carla Barberis, Edizioni Avanti!, 1955),  ne ha fatto una pièce teatrale, Donne perdute, molto rappresentata, in questi anni, nei teatri veneti e scelta dalla Provincia di Rovigo, in occasione del 2 giugno, per commemorare i settant'anni della Repubblica Italiana e la prima volta in cui le donne hanno avuto accesso al voto.
Nonostante la legge, la prostituzione non ha mai smesso di essere un problema d'attualità, strumentalizzato dalla politica in nome di presunta sicurezza e decoro, dimenticando la condizione delle donne, in maggioranza immigrate, che vi sono coinvolte. Come sottolinea Daria Martelli, si riproduce l'antica e doppia morale del patriarcato: disprezzare la prostituta, ma gloriarsi di comprarne i servigi perché il mercato del sesso non comporta relazione e solletica l'identità maschile, ne sancisce il suo potere sulla donna.
Un potere che può portare, in casi estremi, purtroppo frequenti, al femminicidio, ed è cronaca, perché la donna non è più rinchiusa in una casa, può votare, può essere eletta,  ma non è certa di vivere se rifiuta un rapporto maschile che la opprime.
Il volume Donne perdute, di Daria Martelli, si candida perciò alla lettura per non dimenticare, per approfondire, per non smarrire un diritto faticosamente acquisito.

Donne perdute. Adattamento teatrale di Lettere dalle case chiuse, Daria Martelli, Cleup, 2002.

domenica 15 maggio 2016

Gloria Spessotto, intervista

Come anticipato nel post precedente, ecco l'intervista a Gloria Spessotto, l'autrice di Tulipani per il compleanno (Luciana Tufani Editrice, 2015).
Com'è nato il titolo del romanzo?
Il titolo è un piccolo omaggio a Virginia Woolf, il cui romanzo Mrs. Dalloway inizia con l'intenzione della donna di comperarsi, da sola,  i fiori per la festa del suo compleanno. Un gesto che la porterà a ricordare un amore della sua adolescenza, come avviene per Giulia, la protagonista del mio romanzo.
Per la quindicenne Giulia i vestiti sembrano assumere un ruolo importante.
I vestiti sono sempre importanti per le e gli adolescenti. Sono un banco di prova in cui cominciano a sperimentare la loro individualità. Anche se la personalità non è pienamente formata, l'aspetto esteriore diventa un riflesso degli stati d'animo, uno specchio delle diverse direzioni in cui si stanno muovendo, un'immagine di come vorrebbero essere e non solo apparire. La mia protagonista, a volte, indossa i vestiti della madre, altre volte le cravatte del padre, cerca un look che sia personale, con risultati a volte sorprendenti. In questo modo va letto anche l'abbigliamento, spesso sconcertante, di molte adolescenti.
Quale posto occupano i sogni nella vita della nostra personaggia, segnata dal conflitto con la madre malata?
I sogni sono per lei fondamentali, rappresentano una via di fuga. In quel periodo della sua vita il mondo si stende davanti, aperto e pronto per essere conquistato, tutto è ancora possibile. Ma i conti con la realtà arrivano abbastanza presto, con la necessità di compiere delle scelte e accantonare una parte dei sogni. Questa operazione crea necessariamente sofferenza, tanto che Giulia chiamerà la sua adolescenza "malattia", per le difficoltà e il dolore che comporta. La stessa malattia materna assomiglia molto al male adolescenziale: è indefinita, fonte di infelicità e, al tempo stesso, motivo di idealizzazione e di elevazione, eroica.
L'amore per Alberto è assimilabile all'esperienza del dolore e della crescita?
L'amore per Alberto rappresenta, prima di tutto, un'educazione sentimentale, un addestramento all'attesa e alla capacità di non dimenticare. In questo senso è un'esperienza del dolore e della crescita. Però porta anche felicità, la gioia di un dono gratuito e l'ostinata difesa del proprio sogno.
Colpisce il tuo stile narrativo, puoi spiegarne il meccanismo?
Definirei lo stile narrativo del romanzo come una prosa rapsodica, la ricerca di ritrovare un momento significativo della propria vita che giace sepolto da un cumulo di anni. La volontà di ricordare riporta a galla frammenti, immagini, associazioni, flash che, messi insieme, ricostruiscono l'atmosfera di un momento della vita di Giulia, per il quale lei, donna ormai adulta,  prova un sentimento di nostalgia.
Una domanda che esula dal testo, hai altre opere nel cassetto, qualche anticipazione da ragalarci?
Nel cassetto c'è sempre qualcosa, più o meno abbozzato, come una storia su un rapporto tra fratello e sorella, che mi affascina molto, ma preferisco non rivelare altro, a titolo scaramantico.

Gloria Spessotto è un'anglista con esperienze d'insegnamento e interpretariato. Ha pubblicato racconti e romanzi, tra cui Non era l'usignolo (Mobydick 2013). Da anni collabora con il Centro contro le Dipendenze di Trento, di cui  racconta nell'opera Ciò che gli angeli non sanno (Comunità di Camparta 1998).



La foto rappresenta un momento del reading con l'autrice, che si è tenuto a Trento,  il 5 maggio 2016, nella suggestiva Sala degli Affreschi della Biblioteca Civica. 

Da sinistra, Giovanna Covi, Gloria Spessotto, Lauradeilibri, Maddalena Primo.

lunedì 9 maggio 2016

Tulipani per il compleanno

Uno sguardo sull'adolescenza, insieme spietato e nostalgico, e un racconto che ci consegna una personaggia ribelle per forza, nell'Italia degli anni Cinquanta. Il romanzo Tulipani per il compleanno, di Gloria Spessotto (Luciana Tufani Editrice, 2015), ha l'incanto e il disincanto dell'età definita ingrata eppure, per l'autrice, presentata anche come esperienza di una «grandiosa capacità di sognare». Giulia ha quindici anni, lavora nel bar del padre, va a scuola dalle suore e accudisce la madre, perennemente ammalata, legge avidamente e sogna. Il paese dove scorrazza in bicicletta è l'estensione della sua casa e della sua famiglia, lo conosce e lo ama nei suoi angoli più segreti. In un tempo lontanissimo dalle amicizie virtuali dei social network odierni, le sue amiche, Sandra, Miriam, Tullia e Giuliana, sono presenze reali e quotidiane nella scuola oppressiva delle religiose, che inculca sensi di colpa e veicola stereotipi sociali e di genere. Ma Giulia e le sue amiche riescono a divertirsi ugualmente, in una sorprendente fronda tra lo slalom dei divieti. La narrazione non è lineare, ha piuttosto un andamento rapsodico, perché basata sui ricordi che affiorano casualmente, a partire da una notizia che raggiunge Giulia, ormai settantenne, nel giorno del suo compleanno e la riporta al tempo vissuto  decenni prima, colorato dall'amore per Alberto. Lui è un uomo, con tutto il fascino della libertà che esprime il suo essere adulto rispetto a lei, ancora ragazzina. L'amore di Giulia per Alberto è un posto della mente e del cuore, lontano dagli occhi inquisitori della madre e dalle convenzioni sociali, è un giardino segreto dove sono ammessi solo loro due. È anche un modo come un altro per marcare la distanza dai desideri e dalle aspettative della madre, sempre ipercritica nei suoi confronti, e sempre bisognosa di cure. Le unisce un rapporto conflittuale, in cui si intreccia la malattia, anche nel senso più generale di infelicità, che obbliga Giulia a dimettere i panni di figlia per vestire quelli di madre, per accogliere le richieste pressanti di una mamma esigente. E l'amore per Alberto, sebbene privo di un progetto di vita, e senza alcuna visione su un possibile futuro, è pur sempre vita allo stato puro, nonché palestra di dolore e crescita. Un lungo addio, fatto di rari incontri, molti silenzi, ricordi e tristezza  ne segna la fine, insieme all'età dei sogni. Poi, una notizia letta per caso, trafigge l'indifferenza sedimentata negli anni, e gli affetti prevalgono, ancora una volta, anche sulle abitudini che infondono sicurezza, reclamando il loro posto nella vita.




Tulipani per il compleanno, Gloria Spessotto, Luciana Tufani Editrice, 2015.

(segue intervista all'autrice)

lunedì 21 marzo 2016

A mille ce n'è

Difficile resistere alla tentazione di evocare caso, fato, destino, nel romanzo di Cinzia Bigliosi,  per indicare il misterioso percorso della vita che porta due donne a incontrarsi-scontrarsi in un "incidente", facendo deflagrare il loro senso di maternità: desiderato e frustrato per l'una, realizzato e risolto drammaticamente per l'altra.
Una donna è Irma, architetto paesaggista, con il cuore e la mente piena di entusiasmo e promesse per il suo lavoro e la sua vita affettiva. L'altra è mamma di una bambina, bella come una bambola, insieme canticchiano A mille ce n'è e preparano una torta in una situazione da dipingersi e racchiudere in un quadretto, cane compreso.
Il titolo del libro prelude a una narrazione fiabesca, ma questa storia non è una fiaba, niente di più lontano dalla parabola di prove, con  tensione crescente, che si scioglie in un lieto fine. Qui è la realtà dei sentimenti, nella loro lacerante tristezza. La fotografia di un attimo nella vita di due donne, due coppie, due case, come potrebbero essere altre mille, quando le certezze perdono consistenza e prendono il sopravvento i fantasmi dei desideri, mentre la ragione viene obnubilata dal senso di colpa. Qui, attraverso svelamenti successivi, si scopre che nulla è come appare: l'inizio è la fine, la bambola non è tale, la canzone non è felice come sembra, l'incidente non provoca la morte e la morte non è un sogno.

A mille ce n'è, Cinzia Bigliosi, L'Iguana editrice 2015.

pubblicato su
Leggere Donna n°171/2016







venerdì 18 marzo 2016

La tesa fune rossa dell'amore

Nell'introduzione di Silvia Vegetti Finzi a La tesa fune rossa dell'amore un riferimento specifico a Freud, per cui "i poeti ci precedono sempre". Un altro modo per dire la vertigine che ci assale quando leggiamo parole apparentemente  per noi, anche se ignoriamo tutto di chi le abbia pensate e scritte.  Più o meno la sensazione penetrante che  si  prova nell'accostarsi a questa raccolta di poesie sulla narrazione infinita, eppure ancora largamente inesplorata, tra madri e figlie. Tutte voci contemporanee di lingua inglese, magistralmente tradotte  ma leggibili in originale, nel testo a fronte.
Un'antologia poetica  in tre parti. La prima indaga il dilemma tra fusione e separazione nel rapporto madre-figlia, come pure la tendenza a somigliarsi, nel tempo, fino a sovrapporsi. Nella seconda parte, prevalgono la critica, l'omaggio postumo, l'abbandono e la "rinegoziazione del rapporto", come precisa Fiorenza Mormile nell'introduzione, ma si può trovare anche il tema della nostalgia e l'autocritica delle madri. La terza parte della raccolta è focalizzata sul tema della discendenza e della compensazione di difetti.
Le voci poetiche sono relativamente recenti, risalgono all'ultimo trentennio, in gran parte tradotte qui, per la prima volta, dalle poete curatrici e traduttrici che offrono materiale di riflessione su un argomento funestato da stereotipi, un "enigma psicoanalitico", come lo definisce Anna Salvo nella postfazione. Rimasto in ombra, rispetto a quello di madre-figlio, è rapporto fondante e la madre è, per figlia e figlio, "il primo oggetto d'amore", secondo la definizione di Freud. Eppure, tante donne impiegano una vita intera per districarsi fra amore e rancore sottile. Madri odiate, oppure idealizzate, feroci o depauperate, e accanto, figlie lamentose, in disparte, irrealizzate. Per Salvo, l'amore-passione per la madre è come un "testimone" che basa il suo racconto sulla persona e senso di solitudine dall'oggetto materno che riporta al passato.
La raccolta si chiude con un invito alle donne: farsi soggetto di "nostalgia aperta", "capace di ricercare e rincorrere sempre nuove immagini e nuovi riverberi attorno alla madre".
...
I'll not ask for the impossible;
one learns to walk by walking.
In time I'll forget this empty brimming,
I may laugh again at
a bird, perhaps, chucking the nest-
but it will not be happiness,
for I have known that.
(Rita Dove, da Mother Love, W.W. Northon&Company, New York-London 1995).

...
Non chiederò l'impossibile;
si impara a camminare camminando.
Col tempo dimenticherò questo vuoto traboccante;
posso ancora ridere,
forse, di un uccello che abbandona il nido-
ma non sarà la felicità.
Quella l'ho conosciuta. 
(nella traduzione di Anna Maria Robustelli)

e ancora:
...
You never really understood, did you,
how much stronger than her she thought you were
and how you forced her to go to new places
and how she learned eventually
and she went.
Even your refusal to hate outright
and to give up on the possibility of understanding.
The fact is-
You've won
she knows it
and she's proud.
And she said to tell you
she loves the way you read poetry out loud-
even though you still stutter
and you always make a couple of mistakes.
(Karen Alkalay Gut, da So far, so good, Silvan, Tel Aviv e Boulevard, Oxford 2004)

...
Non hai mai capito, vero?
quanto lei ti credeva la più forte
e come l'hai costretta ad andare in luoghi sconosciuti
e come alla fine ha imparato
e c'è andata.
Anche il tuo rifiuto di odiare del tutto
e di rinunciare alla possibilità di capirvi.
Il fatto è-
hai vinto tu
lei lo sa
e ne è orgogliosa.
E mi ha detto di dirti
che le piace tanto come leggi la poesia ad alta voce-
anche se balbetti ancora
e ci metti sempre un paio di errori.
(nella traduzione di Brenda Porster)

La tesa fune rossa dell'amore. Madri e figlie nella poesia femminile contemporanea di lingua inglese, a cura di Loredana Magazzeni, Fiorenza Mormile, Brenda Porster, Anna Maria Robustelli, La Vita Felice 2015.











Camilla e Mafalda, 1941,
ciao mamma, ciao zia







lunedì 14 marzo 2016

Morire non è niente

Improperi del pope, provièr muscoloso e tatuato, gondola che beccheggia, sì, è Venezia. E l'indagine poliziesca del commissario Jacopo Zambon si snoda appunto tra calli e campielli, ma lontano dal chiasso del turismo straripante, piuttosto tra vecchie trattorie, case di amici e luoghi in cui si incontravano da ragazzi. 
Elisabetta Baldisserotto, autrice di questo giallo, è psicologa analista junghiana, e manda in analisi il protagonista per elaborare la separazione dalla moglie e trovare una misura tra dedizione al lavoro e spazio per gli affetti. Gran lettore, questo Zambon,  ama la letteratura americana degli anni Venti, Faulkner, Fitzgerald, Dorothy Parker, ma anche Hemingway, Carver e Yourcenar, per tacere delle letture classiche, tra cui Omero, e nel suo studio tiene un'intera libreria dedicata alla narrativa, che si contrappone ad un'altra con testi di legge e diritto.
Ma se muore Alvise, suo amico da sempre, impegnarsi nell'indagine per omicidio, per lui  significa scoperchiare  un barile di nefandezze: abusi sui minori da parte di religiosi, circonvenzione di incapaci, appropriazione indebita di beni appartenuti a vecchie persone "aiutate" a morire. Avrebbe preferito non conoscere la doppia, terza vita dell'amico, con quello che sottende e gli impone di rivedere il giudizio sui suoi stessi amici. Tenero antieroe contemporaneo, pieno di slanci e incertezze, ancora e in cerca di un amore, un po' si lecca le ferite, un po' prende cantonate, serio e competente nel suo lavoro, ma sovente sfiorato dal dubbio di sbagliare.
Cullata dall' acqua dei canali, che a Venezia sembra ritmare il tempo che passa, la narrazione comincia sottotono, ma poi acchiappa chi legge fino allo sciogliersi dell'enigma.
Però niente è più come prima perché, citando Hemingway, "morire non è niente",  ma solo per chi muore e invece chi rimane deve affrontare "il" niente, ossia la negazione assoluta, aggiunge il nostro commissario. Gli basterà la corazza difensiva, che si è costruita in tanti anni di servizio nella Mobile, per tollerare l'ingiustizia, la crudeltà, la violenza, l'orrore e, appunto, la morte?

Morire non è niente, Elisabetta Baldisserotto, Cleup 2015.

domenica 14 febbraio 2016

S. Valentino: Lettere d'amore

1848. Lui, un poeta e patriota veronese, studente a Padova. Lei, un'affittacamere, sposata e abbandonata dal marito, con tre figli. Aleardo Aleardi e Ottavia Arici, una storia d'amore nutrita dalle lettere. Sopravvivono solo quelle di Ottavia, ma passano di mano in mano alla morte di lui, disperse, poi censurate nella loro prima pubblicazione, nel 1930, a cura di Ubaldo Mazzini, forse ritenute troppo appassionate ed esplicite per i canoni morali del tempo.
Ora vengono alla luce, nella loro interezza, grazie alla paziente ricerca e alla lettura rispettosa di Paola Azzolini, per cui Ottavia è "la maga cui riesce bene, anche se soltanto nelle lettere, la magia che instaura la presenza" (pag.14).
Con una grafia nervosa e una lingua vicina al dialetto, Ottavia racconta la sua quotidianità difficile, stretta tra le richieste del marito, i figli da crescere e la guerra, intorno. E la guerra è la sua preoccupazione maggiore, perché Aleardo deve costantemente sfuggire alla polizia austriaca per i suoi versi che inneggiano alla rivolta.
Un carteggio come un canto per voce sola, queste lettere ci restituiscono la freschezza di un dialogo amoroso e il respiro della vita ottocentesca.

L'amore al tempo della guerra. Lettere di Ottavia Arici ad Aleardo Aleardi, a cura di Paola Azzolini, Il Poligrafo, 2015.

Una più ampia recensione è pubblicata su
Leggere Donna n°170/2016

https://www.letteratemagazine.it/2016/11/16/lettere-d-amore-e-dello-splendore-dei-popoli/

mercoledì 27 gennaio 2016

Giornata della memoria 2016: Erika

Chi è Erika?
Una carrozzina vuota, abbandonata sul binario.
Un fagotto rosa gettato nella speranza.
Una bambina salvata, nell'Olocausto che cancella la sua famiglia, dal coraggio gentile di una donna.
E la superba matita di Roberto Innocenti riempie tutti i vuoti della storia.
Una storia vera.













La storia di Erika (Erika's Story) Ruth Vander Zee, Roberto Innocenti, traduz. di Alessandra Valtieri, La Margherita Edizioni, 2005.

venerdì 22 gennaio 2016

compleanno 3


Tre candeline per Lauradeilibri.
Non si può desiderare un compleanno più bello e più dolce (!): con curiosità, interesse mai sopito, qualche nuovo incontro e un tavolo sommerso dai libri.
Leggere e commentare, ripensare e sognare, mi  auguro un altro anno di letture e spero di condividerle con quanti mi hanno seguita finora.
Ma le porte del blog, come le pagine dei libri, si possono aprire e siete tutti e tutte invitate alla "festa" che prosegue.

lunedì 4 gennaio 2016

Scrittrice o scrittore?

"Scrittrici, molto più faticosamente che scrittori, non si nasce, si diventa".
Nel suo nuovo saggio Daria Martelli, adottando una rigorosa ottica di genere, con svariati  e intriganti esempi, ci permette di entrare nell'officina delle scrittrici del passato, quando le donne, per accreditarsi nella società letteraria, dovevano adottare pseudonimi maschili. Ai giorni nostri il termine scrittrice non comporta più un'automatica diminutio, ma bisogna ancora fare i conti con l'uso sessista del linguaggio, avverte l'autrice, perché "sono le parole che stabiliscono l'ordine simbolico e poiché la disparità dei generi è stata per millenni simbolica, simbolica deve essere anche la parità".
Infatti il volume, introdotto dalla prefazione di Gabriella Imperatori, si pone come ideale proseguimento del precedente Le parole di ieri sulla donna. Una ricerca di genere sulle nostre radici culturali (Cleup, 2012)* perché anche qui viene posto l'accento sull' importanza del linguaggio, che veicola stereotipi e chiusure. 
Scrivere è attività misteriosa e sfuggente, come il pensiero creativo che la sostiene, ma quali sono le condizioni che favoriscono la creatività letteraria? Martelli sostiene che essa non sia una dote certa, piuttosto "uno stato sempre labile e incerto, che conosce momenti di grazia e di crisi" e sottolinea, usando la stupenda metafora di Virginia Woolf, che le donne, per scrivere,  hanno bisogno di "una stanza tutta per sé". A significare non tanto e non solo un locale in cui appartarsi, senza essere interrotte o distratte, ma anche il tempo necessario alla creazione e il rispetto che si riesce a ottenere dagli altri per le proprie esigenze intellettuali e spirituali.

Scrittrice o scrittore? Una ricerca di genere sulla creatività letteraria, Daria Martelli, Cleup, 2015.

*(si rimanda al post Scarpe rosse del 25 novembre 2013)

Una più ampia recensione è pubblicata su
Leggere Donna n°170/2016