Lee, come Elizabeth amava farsi chiamare, figlia di un ingegnere che la introduce ai misteri e al piacere della fotografia, dalla cittadina di Poughkeepsie si sposta a New York  per lavorare come modella, poi arriva a Parigi e passa dall’altra parte della macchina, diventa allieva e poi compagna di Man Ray, apre un suo studio e collabora con Vogue per foto di moda.

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Lee Miller nel 1942

 







Allo scoppio della guerra riesce a farsi accreditare come reporter del conflitto in qualità di aggregata nell’esercito degli Stati Uniti, ma è solo visitando il lager di Dachau che lo strazio più grande si rivela ai suoi occhi. Impietrita e incredula, non riesce a scattare, infine impugna la sua Rolleiflex e "ingaggia la sua battaglia contro l’orrore». Cadaveri di corpi scheletriti accatastati come legna da ardere spinti dalle ruspe in fosse comuni per evitare le epidemie, prigionieri scarnificati che si mostrano all’obiettivo con i teschi in cui occhi spaventati brillano come unico segno di vita. Lee fotografa anche le SS «afflosciate in ginocchio a chiedere inutilmente pietà, senza più fierezza» che  definisce «bastardi ben nutriti». Sono le foto che ci ricorderanno, al di là dei negazionismi, cosa sia successo nelle fabbriche del male.

Quando spedirà al giornale articolo e servizio fotografico commenterà con quello che sarà il titolo “Credetemi, è tutto vero!”. Per la prima volta una rivista di moda deve confrontarsi con una realtà che supera l’immaginazione sul versante della tragedia. Lei e David Scherman, corrispondente di Life, sono tra i primi a visitare il campo, non trovano neppure la forza di commentare e si ritirano a Monaco nell’alloggio a loro assegnato, al numero 16 di Prinzregentenplatz. Ma quello è l’appartamento privato di Hitler in cui, con Eva Braun, intratteneva i suoi ospiti di riguardo, tra cui Benito Mussolini.

Al loro ingresso, i due inviati notano immediatamente l’estrema mediocrità di mobili e suppellettili, stupiti che non vi si trovi alcuna traccia del male che ha saputo scatenare quell’omino diabolico. La nausea stava per sopraffarla a Dachau ma ha saputo resistere, invece qui le resistenze di Lee stanno per cedere, allora con uno scatto di gusto dadaista decide di farsi fotografare nella vasca del Führer, spogliandosi nuda davanti al suo ritratto e profanando il luogo che aveva accolto la sua intimità. Una sorta di resa dei conti, «una vendetta artistica contro la brutalità del potere». Tuttavia quanto ha visto non si lava con un bagno e resterà un fardello pesante per il resto della sua vita.










Partendo dagli scatti di Lee e muovendosi sulle sue tracce, Serena Dandini ha ricostruito le molte vite di modella, artista, fotografa della ragazza di Poughkeepsie, fino al ritorno dalla guerra quando, profondamente ferita per quello che aveva visto, nascose in soffitta molte foto in una scatola di latta, tra cui quella nella vasca di Hitler. E solo per un caso fortuito furono ritrovate dopo la sua morte.

Perché leggere questo libro? Le pagine sulla guerra sono tra le più profonde del romanzo,che ha richiesto un’accurata ricerca documentale indicata nella bibliografia. E perché la penna dell’autrice è al contempo affilata e garbata e ha saputo rendere sia l’esprit de Paris che la desolazione della guerra, la leggerezza dello stile di vita dei surrealisti e l’incubo concentrazionario: la progressiva cancellazione dell’identità delle vittime fino all’annientamento della vita.


La vasca del Fuhrer, Serena Dandini, Einaudi, 2020.

testo e immagini già pubblicati su

https://www.heraldo.it/2021/01/27/quel-bagno-nella-vasca-di-hitler/