Quentin Blake per Mathilda di Rohald Dahl

martedì 8 dicembre 2020

Da dove viene il vento

 


Una voce narrante cuce tante storie senza un'unità di tempo e di spazio, mala singolarità di Da dove viene il vento, di Mariolina Venezia, appena ripubblicato da La Nave di Teseo, risiede anche nella caratteristica dello specchio.

Scrittrice e sceneggiatrice, Venezia è nata a Matera e vive a Roma, ha vinto il Premio Campiello nel 2007 con il romanzo Mille anni che sto qui e raggiunto una grande popolarità con le vicende televisive di Imma Tataranni, sostituta procuratrice a Matera, personaggia ispirata ai suoi libri Come piante tra i sassi, Maltempo, Rione Serra Venerdì, Via del Riscatto, editi da Einaudi.

Da dove viene il vento è la riscrittura di un suo romanzo del 2011 ripubblicato da pochi giorni dalla casa editrice La Nave di Teseo. Ogni emozione, ogni personaggio, ogni sguardo del libro si rispecchiano in quello dell'altro, in un rimando infinito che va oltre il tempo passato, presente e futuro e riguarda anche il passaggio del vento e il fluire del mare.

Questo è un romanzo composito che si può approcciare come la rete: si cercano e seguono i contenuti che più interessano. Il titolo del romanzo è preso da un'antica fiaba berbera, quella che la nonna di Idir gli raccontava da piccolo e che ora lui regala ad altri, per salvarli dalla disperazione. E la fiaba ritorna sovente nei sogni confusi, sfumati nella realtà terribile della sopravvivenza in terra straniera, scatenati da ferite non curate, dalla solitudine e dai ricordi affastellati della tragedia che l'ha fatto fuggire dal suo Paese alla volta di un'Europa desiderata come la panacea della miseria e dell'ingiustizia.

Anche i sentimenti di Dora si rispecchiano in Salvatore, dopo vent'anni trascorsi in Francia, e ritrovato proprio a Padova, la città in cui entrambi hanno compiuto i loro studi, dove lui si è costruito una vita apparentemente di successo. E Salvatore investe provvisoriamente attenzione in lei, senza però dare spiegazioni e senza progettualità da condividere. Per entrambi è determinante il peso dei ricordi, che influenzano le attese di Dora e si intrecciano ai fallimenti di Salvatore.

Le storie si incrociano e incastrano tra i personaggi, mentre la voce narrante rimanda al lockdown della scorsa primavera, una sorta di confinamento che per la narratrice somiglia, in qualche misura, all'esperienza dell'astronauta russo rimasto per trecentododici giorni nello spazio, tra terra e luna, mentre il suo Paese, l'Unione Sovietica, si dissolveva e mancavano i fondi per finanziare il suo rientro a casa. i pensieri ricorrenti dell'uomo, nello stato sospeso in cui si trova, sono visitati  dalla malinconia, mentre riflette sul tempo e si nutre di capsule e ricordi nella sua «scatoletta di latta». Così, a sua volta, stabilisce un paragone tra sé e Cristoforo Colombo, il navigatore che viveva ogni giorno come una sfida del destino, sperando di vedere infine una striscia di terra all'orizzonte, che lo salvasse dall'ammutinamento della ciurma e dall'angoscia del dubbio.

Ma dov'è il senso delle cose? Come si rintraccia il filo della vita? Come può farlo Idir, reso schiavo in un campo di raccolta dei pomodori e Dora, con i suoi interrogativi senza risposta, e Salvatore stretto fra le minacce degli usurai e una vita che gli scorre estranea davanti agli occhi? E cosa può pensare la piccola Amsah, che canta per farsi compagnia, sola tra i flutti del mare? «Il senso non esiste ma si crea, e la strada contiene in sé la direzione» suggerisce la voce narrante, e poi ancora:«Come una malata in un letto d'ospedale, le storie mi guariscono o mi avvelenano».

Si può trovare la storia dei nostri ultimi decenni in questo romanzo, ci sono gli anni Settanta e la contestazione studentesca negli atenei, l'incerto periodo di riflusso che ne seguì, la caduta delle torri gemelle a New York, la guerra in Iraq, il problema irrisolto dell'immigrazione con l'altissimo costo umano che comporta.

C'è tanto di noi, ieri e oggi, e Mariolina Venezia gioca sul filo sottile e arduo dei sentimenti, con effetti di lirismo puro, senza cadere in facili soluzioni e ricette riparatrici e consolatorie.

E ci sono il vento e il mare, un mare salato che affoga e un mare di lacrime che sorprendentemente consola. Un vento che spinge le nuvole configurandole in forma di Paesi rincorsi, oppure un vento che non spinge le vele perché non arriva mai.

Da dove viene il vento. Il nostro viaggio nel cuore della notte, Mariolina Venezia, La nave di Teseo, 2020.



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https://www.heraldo.it/2020/10/24/da-dove-viene-il-vento-in-cerca-del-senso-delle-cose/

lunedì 7 dicembre 2020

La luna e la figlia cambiata


Quante volte è successo, leggendo un saggio, di avere l'impressione di ascoltare la voce di chi ha scritto, soprattutto se si ha avuto occasione di un incontro, ancorché virtuale, con l'autore o l'autrice? Nei romanzi non succede quasi mai. Tanto i saggi risultano didascalici, salvo rare eccezioni come quella mirabile di Virginia Woolf, tanto i romanzi fanno dimenticare gli eventuali spunti autobiografici e non ci si chiede, perduti nella trama,  se la storia sia vera o inventata. Il romanzo poggia su una struttura, si vale di metafore, salti temporali, si nutre di miti, si complica con sdoppiature di personaggi e si vale di stili che attraversano i generi letterari. Il saggio riflette lo studio e la documentazione di un problema fino a un determinato momento storico, invece il romanzo è destinato a durare nel tempo e a parlare sempre in modo diverso a chi legge.

Succede con La luna e la figlia cambiata, il cui titolo evoca immediatamente la novella di Pirandello  Il figlio cambiato (1902), e l'analogia prosegue con richiami al folklore siciliano, ma qui c'è una voce bambina che racconta un'esperienza di rifiuto-accettazione da parte della madre biologica. Non è l'intreccio a inchiodare alla pagina, anche se succede fino all'ultima riga, è piuttosto il dolore che questa bimba cerca di elaborare inventandosi una strategia di fuga per darsi una spiegazione accettabile mentre la sua vita, interrotta da inspiegabili gesti parentali, scorre tra solitudine, malinconia e onde di rabbia adulta, 

Onde che sono anche del mare, vagheggiato e vissuto ora come oblio, ora come distanza dalla rimpianta esistenza "di prima". Un mare che respira (sciatu è il respiro) tra le righe e viene rappresentato graficamente dagli inserti di poesia visiva, in cui l'autrice, Maria Cannata, sceglie un preciso legame tra segno e significato per costruire un testo senza argini e confini.

«Tavola era il mare.

Tavola di metallo grigia e immobile. [...]

Mare e cielo avevano lo stesso colore metallico, una cosa sola se non fosse stato per quel respiro leggero che andava e veniva.[...]

Il mare si era un poco increspato.

Sciatu luntanu.                                    

Sciatu vicinu.

 Il rapporto madre-figlia, sbilanciato dal potere genitoriale, non si nutre di parole ma di azioni, anche violente, giustificate dall'ossessione  della madre per la pulizia e il conformismo alle regole di vicinato. L'assenza di parole, di spiegazioni, costringe la protagonista a trovare un escamotage per tollerare il dolore della separazione da una vita completamente diversa a cui è stata strappata.

«Lina carissima, forse anch'io, senza accorgermene, sono finita in una strana fiaba. Com'è possibile che questa sia la mia famiglia? Io non conosco nessuno. La Madre mi strattona da una parte all'altra del  Cortile, perché tutti mi vedano e loro mi guardano come se invece che una bambina fossi "una cosa strana", venuta chissà da dove. e poi, parlano una lingua che non capisco e quando, come ci hanno insegnato le Zie, dico: "scusi", o "per piacere", "grazie", tutti ridono e si divertono come se vedessero una bambola parlante. Così tengo la bocca chiusa e aspetto che tutto finisca.»  

Nella  vita della bambina la figura di Jana, con le sue storie, come Lunedda e Rosamarina, un toccasana per far sognare i bambini e le bambine del cortile, svolge una funzione regolatrice e salvifica.

«Lunedda era una ragazza molto bella! Ogni giorno davanti allo specchio si guardava il viso di latte, si pettinava i capelli di seta.

La Madre la chiamava: - Lunedda! C'è il pane da infornare! [...]

Lunedda non ascoltava. [...]

Un grido straziò l'aria e fece ammutolire i grilli.

Mille pezzettini di specchio si sparsero per il cielo e mostrarono alla notte il viso bruciato della bella Luna.»

Maria Cannata si è valsa di una lingua arcaica che guarda al dialetto appropriandosene per descrivere meglio una realtà che vive di tradizioni e miti rivisitati, una vita di cortile con la prossimità di personaggi  poveri ma portatori di un sapere antico che prescinde dall'alfabetizzazione.  Il dolore della bambina contagia chi legge ma non lo turba perché  è illuminato da squarci di generosità immensa e prevale infine un  sentimento filiale che riesce a sopravvivere e declinarsi, a sua volta, nel materno.

 

La luna e la figlia cambiata, Maria Cannata, Gabrielli Editori, 2011 (il libro è disponibile sulle piattaforme di acquisto on line).

Maria Cannata nasce a Catania e si laurea in Lettere Moderne, consegue poi la specializzazione in Storia all'Università di Urbino. Segue una carriera di insegnante e un'opera ventennale di promozione culturale svolta come Presidente de Il Circolo della Rosa di Verona. La figlia cambiata è il suo primo romanzo.

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https://cartesensibili.wordpress.com/2020/11/28/lauradeilibri-laura-bertolotti-la-luna-e-la-figlia-cambiata/

 

lunedì 23 novembre 2020

 


Che cos’è la letteratura per l’infanzia? Materia sfuggente, ammette la curatrice del volume,
Marnie Campagnaro, ma sa liberare la fantasia e suggerisce approfondimenti inaspettati, rivelandosi prezioso strumento per accompagnare le domande di senso che pongono le bambine e i bambini in crescita. Oggetto di studio accademico e insieme di opere per giovani lettori e lettrici, è quasi un ossimoro che rimanda a due termini afferenti a campi semantici opposti: la letteratura, quale evoluzione del pensiero, e l’infanzia, luogo dell’immaturità. Il testo si articola in saggi ad opera di ricercatrici e ricercatori del GRIBS* dell’Università di Padova, e indaga vari aspetti  restituendo i molteplici approcci alla letteratura per l’infanzia, quali: le forme della narrativa, il ruolo delle immagini, il viaggio iniziatico di formazione, il tema della finitudine, le esplorazioni matematiche e l’avventura del leggere nella scuola per l’infanzia, senza dimenticare l’influenza delle nuove tecnologie sull’approccio alla lettura.

Donatella Lombello chiarisce la genesi e le tipologie della narrativa, guidando allo smontaggio dei testi per scoprire la struttura del novel e del romance, perché leggere è sempre un’azione che  permette di entrare nel testo, superandone l’estraneità. Inoltre leggere è verbo di per sé trivalente che implica tre presenze: due soggetti (chi racconta/legge; chi ascolta/condivide) e un oggetto (le trame narrative dette/lette/illustrate. È insomma una relazione gratuita tra chi legge/racconta e chi ascolta, e importante in quanto può orientare in modo non casuale né effimero una specifica autonomia critica.

Il percorso storico della fiaba è tracciato con uno sguardo attento alla formazione del pensiero narrativo nel bambino e alle metafore che illuminano “concetti sconosciuti e astratti” dando  “forma corporea a ciò che è senza forma” (Campagnaro), e arginando le grandi paure dei piccoli. Come lo scudo di Perseo lo protesse dal mostro-Medusa, così la letteratura per l’infanzia si fa specchio riflettente per indagare le zone buie dell’esistenza, da cui i piccoli sono fortemente attratti, permettendo loro di vedere l’orrido senza rimanerne pietrificati, poiché lo spazio narrativo offre rispecchiamento, stimola e suggerisce il racconto dell’esperienza personale, nella certezza che i buoni vengano infine premiati e i cattivi siano puniti. Le fiabe “non sono il luogo della pietas, della compassione o del perdono”, al contrario, sono “assetate di vendetta”, ma ricche di dettagli che, come autentici ami, agganciano l’attenzione di lettrici e lettori e, nella distanza tra le terre della fantasia (C’era una volta…) e la vita reale, permettono a un messaggio importante di farsi strada nella mente dei piccoli: solo chi si mette in cammino può trovare la felicità.

Una trattazione particolarmente delicata riguarda il mistero della morte, perché “i bambini non sono immuni dall’emozione generata da un evento luttuoso” (Katia Scabello) e comprendono che la morte sia un evento irreversibile. La letteratura, a differenza della realtà, può permettersi di raccontare l’oltre e, nel suo spazio protetto, solleva dall’ansia e promuove un incontro sereno con il tema della finitudine.

Il tema del viaggio (Campagnaro, Nina Goga), riassumibile nel modello casa – lontananza – casa, prevede l’avventura, la sfida del limite, il cammino, ma è sovente vissuto dai bambini, più che dalle bambine, e fa nascere il dubbio che si imponga una riflessione su genere e ruoli anche nella letteratura per l’infanzia.

Come si è detto, molti sono i versanti d’indagine di quest’opera che la rendono importante strumento di studio, ma la ricca bibliografia di testi imprescindibili, per la costruzione di percorsi di lettura a misura di bambini e bambine d’oggi, la candida a prezioso e duttile  sussidio per quanti operano, con ruoli diversi, nell’ambito della promozione della lettura.

*Gruppo di Ricerca sulle Biblioteche Scolastiche

Le terre della fantasia. Leggere la letteratura per l'infanzia e l'adolescenza, a cura di Marnie Campagnaro, Donzelli, 2014.

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Leggere Donna n°169/2015

 

giovedì 19 novembre 2020

Lupini violetti dietro il filo spinato

 


Quando si parla di prigionieri nei campi di concentramento nazisti difficilmente si fanno distinzioni di genere ma il saggio di Katia Ricci si pone in modo critico rispetto la narrazione della vita nei lager, raccontando la storia del campo di Ravensbrűck.

Nato come campo di rieducazione per donne, per volontà di Himmler nel 1938, inizialmente destinato alle tedesche contrarie al regime, vide  rinchiuse anche prostitute, criminali comuni, vagabonde e zingare. Tra loro solo un'esigua percentuale del 10% era di religione ebraica, fino a    quando arrivarono in massa donne e bambini dal ghetto di Varsavia. Sulla divisa portavano un triangolo di stoffa che simbolicamente raffigurava la loro diversità: rosso le politiche, verde le criminali, viola le testimoni di Geova, giallo le ebree, nero le zingare e le cosiddette "asociali". Venti baracche, o Block, ognuna delle quali poteva contenere duecento prigioniere, avendo previsto una capacità del campo di quattromila prigioniere, eppure arrivò a contenerne novantamila nei mesi successivi al 1944, ogni cuccetta contava fino a quattro donne. 

Anche mille italiane ne fecero parte, malviste da tutte le altre perché considerate fasciste. Il campo, come tutte le realtà concentrazionarie, disponeva di due ordini di sorveglianza, una composta  dalle SS che detenevano il potere, l'altra formata da prigioniere, investite del ruolo di guardiane per gestire la quotidianità. Quelle donne ottenevano per loro stesse un livello migliore di trattamento se non esitavano a  infierire sulle  loro compagne. Difficile da accettare, ammette l'autrice, perché abbatte lo stereotipo della bontà femminile.

Nel catalogo di efferatezze che si compirono spicca il famigerato dottor Karl Gehhardt  che inoculava su giovani donne polacche, chiamate "conigliette",  germi di ogni tipo per testare la validità dei sulfamidici. Qualcuna di loro riuscì a far trapelare l'informazione delle sevizie alla famiglia, la Croce Rossa svizzera fu avvisata ma non intervenne in alcun modo. Solo diciotto di loro, protette dalle altre prigioniere, riuscirono a salvarsi, nonostante le SS cercarono di ucciderle per non lasciare testimonianza degli esperimenti.

Eppure, ci rivela l'autrice, a Ravensbrűck, come negli altri campi, era praticata una forma di resistenza creativa e artistica che si esprimeva con disegni, cori, incontri formativi chiamati "conferenze", poesie, piccoli lavori di ricamo, e poi racconti di storie, trame di libri, opere teatrali.  Come i disegni, anche la poesia, così simile alla preghiera per ritmo e profondità, si rivelò un efficace strumento di resilienza. Tutte attività proibite, tanto che la loro scoperta  comportava gravi punizioni.

Il saggio di Ricci si interroga e sottolinea i problemi più frequenti che si presentavano, come le mestruazioni,  la fame cronica, l'assenza di medicine, gli stupri, le molestie. Tuttavia quel  contesto terribile ed estremo  faceva emergere una forza interiore che rafforzava forme di solidarietà tra le prigioniere. Infatti l'amicizia, nel campo, era tutto e si formavano gruppi di mutua assistenza, le cosiddette "famiglie di campo", accomunando le prigioniere per provenienza geografica, ideologia o classe sociale. Erano un valido aiuto per la condivisione del cibo e dei vestiti. E nacquero amori, come quello tra Margarete Buber e Milena Jasenska.

La peculiarità di questo libro sta nell'empatia che si respira tra le righe infatti l'autrice afferma di aver avvertito una particolare vicinanza le donne di Ravensbrűck e stabilisce un paragone fra l'antico dolore femminile,  sottomesse al dominio patriarcale e quello delle donne prigioniere, anch'esse vittime della sopraffazione dell'uomo.

L'evocativo titolo del saggio riprende una frase di Etty Hillesum che, dal campo di Westerbork dov'era rinchiusa, osservava «I lupini violetti stanno là, così principeschi e così pacifici». Nella parte centrale del libro sono raccolte riproduzioni dei disegni eseguite dalle artiste Violette Lecoq, Aat Breuer, Eliane Jeannin-Garreau, France Audoul, Charlotte Salomon, Jeannette L'Herminier, Helen Ernst, Ivonne Uselinger. Testimonianze arrivate fortunosamente a noi, sarebbero costate punizioni, torture, anche la vita delle loro autrici se fossero state scoperte nel campo. «Non si tratta di conservare questa vita a ogni costo, ma di come la si conserva», scriveva  Etty Hillesum, cogliendo profondamente il senso della vita che prevale anche nella reclusione. 

Nel racconto documentato di Katia Ricci la storia del campo di  Ravensbrűck  diventa la storia delle donne di Ravensbrűck che, con il loro mutuo aiuto e le forme dell'arte, insegnano a tutte noi, e particolarmente alle giovani generazioni, ad andare "oltre" il dolore, le meschinità, la violenza, le molestie  e praticare la solidarietà nel senso più vero del termine.

Lupini violetti dietro il filo spinato. Artiste e poete a Ravensbrück, Katia Ricci, Luciana Tufani Editrice, 2020.


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Leggere Donna, n. 189/2020


lunedì 19 ottobre 2020

e il blog?

Langue, non scrivo quasi più, ne sono consapevole, ma scrivo altrove, e leggo, leggo molto, leggo sempre. Arriverà il momento in cui scriverò ancora, anche qui.

Ciao a tutte/i


immagine dell'artista Ekaterina Panikanova (San Pietroburgo 1975) che dipinge e disegna su vecchi libri

mercoledì 5 agosto 2020

Madri gotiche


La prima sensazione conseguente alla lettura di Madri gotiche, di Patrizia Busacca,  è di tristezza, perché il dolore viene ampiamente visitato nelle sue forme di malattia, incuria sanitaria, abbandono e carenza affettiva. Eppure, a libro chiuso, non è la sensazione che rimane perché il pensiero va immediatamente alla ricchezza di argomenti trattati, dall'amicizia tra donne ai riferimenti letterari, passando per i viaggi e la manualità creativa. Il libro esce postumo e questo aspetto, di per sé,  comporta una sfasatura costante tra la narrazione, intrisa di ottimismo, speranza e determinazione e l'epilogo scritto dal marito e curatore, Alessandro Bencivenni, che esplicita di voler dare compimento alla scrittura della moglie, una sorta di «prodigio retroattivo» per dare alle sue pagine «il significato luminoso di un lascito».

Sono due i filoni principali del libro, alternati con un movimento che prescinde dall'ordine cronologico per soffermarsi invece sui dettagli delle esperienze. Un tema importante è la malattia personale dell'autrice, narrata con precisione clinica, senza nascondere nulla, che l'ha impegnata sul fronte della resilienza per lunghi anni tra interventi, terapie invasive e ricadute inaspettate. E l'altro è la storia della zia Lidia, internata appena adolescente e praticamente cancellata dalla narrazione familiare. Su tutto aleggia e ritorna con sottolineature frequenti il rapporto conflittuale e irrisolto con la madre, definita anaffettiva, come già la nonna materna che decise il destino di Lidia.

«Ho passato la vita a cercare di sfuggire quella che io chiamo la maledizione delle madri gotiche; queste figure tristi e depresse che hanno attraversato la mia infanzia e la mia giovinezza e che hanno condizionato con la loro negativa influenza le vite degli altri familiari. Ho lottato con tutte le mie forze per non avere la loro stessa visione della vita. Non volevo che la maledizione si perpetuasse. Infatti, se mia madre ha sopportato l'indifferenza di mia nonna che si era rinchiusa nel suo aspro dolore, a causa dell'internamento della figlia, anche io ho pagato ogni giorno il mio dazio all'infelicità, dacché è nata mia sorella [...] il fatto di essere sana e di non aver avuto i problemi che mia sorella ebbe appena dopo la nascita, divenne per me un fardello molto pesante da portare. Forse lo stesso che mia madre aveva sentito su di sé e che mi ha rovesciato addosso in un tentativo salvifico».

L'autrice, giornalista televisiva,  esplicita in questo testo il desiderio di lasciare traccia della storia della zia e con tale spirito affronta la volontà di diventarne tutrice legale e l'impegno a farle visita, non come obbligo ma come risarcimento affettivo, e poi affronta lo studio dei fascicoli medici e le interviste senza risposta alla madre e agli zii. Si ripercorre tutta la storia della Legge Basaglia nel racconto di Patrizia Busacca, con tutti i lacci e i freni imposti dalla burocrazia, dalla resistenza a cambiare delle strutture  ospedaliere all'impreparazione delle persone preposte al funzionamento del nuovo ordine. Così per decenni la zia Lidia è passata  attraverso cure tremende, sedazione e contenzione, con il risultato dell'annullamento progressivo della sua  personalità e la cancellazione dei suoi diritti civili. È tuttora viva, sopravvissuta a Patrizia e anche questo dettaglio risulta spiazzante e fa riflettere sulla casualità della vita.

Nel racconto non ci sono filtri neppure nel parlare di cancro,  dalla difficile accettazione della diagnosi ai dettagli degli interventi, nell'alternanza di speranza e delusione, senza arrendersi mai. Ma più la volontà  di Patrizia si impone sulle cure, più ci si sente investiti di impotenza come lettori e lettrici.

«Hai il diavolo in corpo e te lo devi estirpare. Così da persona sicura di te che ha tutto sotto controllo, una propria vita, un proprio lavoro, degli affetti, diventi improvvisamente una paziente che deve affidarsi a qualcun altro per salvarsi la vita [...] Non rimane altro, dunque, se non fare i conti con il proprio corpo che ora avverti nella sua parte estranea e ti chiedi perché, ancora una volta, sei messa di fronte a una prova. Non pensi realmente che morirai ma pensi che ci può essere questa possibilità a causa di un errore umano durante l'intervento chirurgico e hai da subito solo un pensiero: non devi lasciare niente al caso e dovrai programmare questa fase della tua vita. Sai da subito che vuoi fare testamento biologico perché non vorresti mai rimanere a vegetare in una sala di ospedale, fai il testamento vero e proprio e sei angosciata all'idea di lasciare tuo figlio. Ha nove anni e ti sembra ancora un cucciolo grande e grosso da coccolare e proteggere».

Senza enfasi, ma con una forza empatica che le derivava da non facili vicende, Patrizia, a un certo punto, decide di dedicarsi soprattutto alla sua famiglia, coltivando gli affetti più cari, senza perdere altro tempo. Scrive di quando in quando un articolo, colleziona opaline, confeziona preziosi bouquet  di perline, secondo un'antica tecnica veneziana, e si dedica allo studio della progettazione di interni. Non abbandona mai i viaggi nell'amata Provenza, in vacanza,  e negli Stati Uniti, per motivi di cure. Proprio visitando l'Art Institute di Chicago, nell'ammirare il dipinto "American Gothic" (Grant Wood, 1930) si ripromette di rompere la "maledizione" parentale,  mettere fine al suo bisogno di amore materno e raccontare la storia della sua famiglia.

Questo intenso memoir  ci conduce in spazi scomodi di riflessione, non è libro che si dimentica facilmente, costringe  a ripensare le nostre priorità alla luce di argomenti che rimuoviamo dal nostro quotidiano: malattia e morte, così poco glamour e poco utili per lavorare, produrre, divertirsi.

«Ho imparato a vivere. Intendiamoci, con i problemi oncologici non si sa mai. Adesso sembro quasi guarita ma tra qualche mese o anno potrei ammalarmi di nuovo e tutto ricomincerebbe da capo. Però tutto ormai ha un sapore diverso».

 Madri gotiche, Patrizia Busacca, LINEA edizioni, 2020.

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Almarina

Almarina ha sedici anni, è romena e suo padre le ha rotto qualche osso, adesso è a Nisida «per fortuna». È «un nodo, un gomitolo, una scimmia con una tuta sformata di acetato addosso» ma è anche «forte, batte bene, scatta veloce per difendere il punto [...] è generosa» quando gioca con le compagne.

Almarina è il romanzo con cui Valeria Parrella è stata finalista al Premio Strega 2020 e basta leggere le prime pagine per ritenere corretto il suo posizionamento nella cinquina, al di là dell'esito del concorso. 

L'autrice riesce in un sofffio a portarci dentro e fuori l'adolescenza, gli abusi, i corpi di chi a Nisida arriva per aver commesso un reato e lì trova una parentesi in cui può permettersi, ancora e finalmente, di crescere, studiare, sognare. Che cosa sia Nisida è dato saperlo, una delle diciassette carceri minorili del Paese. La novità è piuttosto che Parrella,  attraverso la storia di Almarina,  costringe a pensare e a riflettere sul rimosso comune: le carceri dove  vivono persone con esigenze normali nonostante le limitazioni alla loro libertà. E le carceri minorili, strutture in cui adolescenti e giovani adulti sono rinchiusi perché provati duramente dalla vita, defraudati del loro tempo dalla famiglia o da adulti incoscienti e criminali.

La voce narrante del romanzo è quella della professoressa di matematica, Elisabetta Maiorano, che insegna a Nisida da alcuni anni e ogni giorno, all'ingresso, si riprogramma mentalmente per trovare una collocazione tra i ragazzi e le ragazze, mediando con la sua vita libera "fuori", in una Napoli problematica  e affascinante. Ma adesso deve compiere una mediazione più grande perché la sua vita e il suo lavoro devono adattarsi anche all'elaborazione del lutto recente del marito, che scatena quello più antico, latente, della mancata maternità.

Almarina, che il padre ha violentato e poi rovinato di mazzate, fuggita con il fratello minore,  privata anche da questo legame affettivo per volontà dei servizi sociali, risveglia nella professoressa il sentimento di protezione, il desiderio di cura e responsabilità verso una persona in divenire, la bellezza di vederla  schiudersi a un destino che la risarcisca e la porti «lontano dal suo passato».  Nella speciale empatia che si crea tra la professoressa Maiorano e la studentessa Almarina c'è qualcosa che potrebbe chiamarsi amore, declinato nella misura del dono che non chiede nulla in cambio, che aiuta a vivere, «l'amore delle madri: senza merito, senza reciprocità, senza conquista».

La scrittrice ha operato come volontaria nel carcere di Nisida animando un laboratorio di scrittura creativa, forse per questo motivo si respira tra le sue righe molto rispetto per le persone che vivono la condizione di reclusi e per quanti vi lavorano. Si colgono tutte le sfaccettature della cosiddetta "pena", dalla punizione, alla compassione, alla fatica che i soggetti provano "dentro", al di là del ruolo che giocano. E c'è molta delicatezza nella penna di Parrella nel maneggiare questi temi senza cadere nel melò, senza forzare i toni, con un poetico equilibrio tra memoria, realtà e sguardo su un possibile futuro.

 Almarina, Valeria Parrella, Einaudi, 2019.


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https://www.heraldo.it/2020/07/13/almarina-che-rinasce-a-nisida/


Cambiare l'acqua ai fiori


Sempre, in estate, c'è voglia di vacanze e anche quest'anno, nonostante le limitazioni negli spostamenti, da fase 2 Covid19, si favoleggia di mare, montagna e viaggi nel nostro Paese o non troppo lontano. E, come sempre, anche la selezione dei libri offerti dalle case editrici si adegua a una maggiore leggerezza.

Un romanzo che è saldamente in classifica tra i più venduti  da diverse settimane è Cambiare l'acqua ai fiori di Valérie Perrin. Ha tutte le caratteristiche di leggibilità che si richiede a un libro da portarsi in spiaggia, su una panchina al fresco o in viaggio. L'autrice, già fotografa di scena del marito, il regista  Claude Lelouche, ha costruito una storia che, nonostante tocchi la sofferenza dell'abbandono infantile, dell'infelicità coniugale e della morte, riesce ad attrarre chi legge dalla prima all'ultima riga e non risulta mai greve nei toni. Tuttavia, per muoverle una critica, si può osservare che il finale è scontato, così come appare ingenuamente  semplificato il corso degli eventi e lo sviluppo delle relazioni fra i vari personaggi.

Ambientato in Francia, racconta le vicende di una ragazza cresciuta in orfanatrofio, con un'adolescenza gestita dai servizi sociali, che pensa di trovare un ancoraggio alla sua vita in un bellimbusto dai modi spavaldi. Il tipo si rivela presto nullafacente ed egoista, ma il lavoro di Violette, prima a un passaggio a livello, con turni massacranti, poi come custode di un cimitero, e soprattutto l'amore per la figlia, l'aiutano a trovare la motivazione per affrontare le avversità, ogni singolo giorno.

Vive nella casetta al margine del cimitero, accudisce le tombe, per così dire, le libera dalle erbacce, rimuove i fiori appassiti, ne coltiva di suoi, apre la sua casa a chi vuole parlare e sfogarsi dei propri problemi, non nega a nessuno una tazza di tè e una compagnia attenta. Tiene un registro delle sepolture, in cui annota le date, i nomi dei defunti e trascrive i discorsi di saluto, pronta a scriverne di suoi, su richiesta dei parenti. Ma il destino sembra accanirsi su di lei togliendole finanche l'affetto più caro e Violette reagisce con una pena profonda che l'accompagnerà sempre. All'apparenza austera, serba invece una vitalità segreta che rivela solo agli amici e conoscenti più cari. La sua vita si basa su un ordine stagionale, lo stesso che accompagna la produzione del suo orto e del suo giardino. E poi arriva una persona a scompigliare il suo equilibrio, rivelandole aspetti del passato che credeva archiviati nella mente e nel cuore.

La protagonista, Violette, è di quelle che non si scordano per come l'autrice ha saputo magicamente tratteggiarne la resilienza e bontà senza eguali. È questo un romanzo che trova estimatori ed estimatrici tra le persone con i gusti più differenti quanto a letture, forse perché tocca temi cari ai più e propone un approccio positivo ai problemi e alla vita stessa.

In fondo, di questi tempi, più o meno tutti "sembra" che avvertano il bisogno di credere nella bellezza e nella bontà.

 Cambiare l'acqua ai fiori, Valérie Perrin, edizioni e/o, 2019.


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lunedì 22 giugno 2020

Perché rileggere Barbara Pym?

L'abitudine consolidata di incasellare autrici e autori  non funziona per l'autrice britannica Barbara Pym, tanto singolare da sfuggire ai paragoni più arditi, seppure tenacemente cercati. «Allieva di Cechov come e più di Katherine Mansfield»,  meglio «di Thomas Mann», anzi «la Jane Austen del XX secolo, con molto di Agatha Christie». Tutti paragoni che su di lei sembrano attardarsi per poco e poi scivolare via tanto la sua penna è sommessa e ironica.

Nacque il 2 giugno 1913 a Owestry, nello Shropshire, una contea al confine con il Galles. Il padre era avvocato e la madre di origine alto-borghese, e fu proprio lei a spronarla a scrivere, a partire dai dieci anni. Barbara studiò a Liverpool e si laureò in Lingua e Letteratura inglese a Oxford nel 1934. Durante la guerra prestò servizio all'Ufficio censura di Bristol e nelle fila delle Wrens (Women's royal naval service). Al termine del conflitto trovò lavoro come ricercatrice all'Istituto internazionale di cultura africana, a Londra, e fu redattrice della rivista Africa.

Da tutte le esperienze trasse ispirazione per i suoi romanzi, il primo pubblicato fu Some Tame Gazelle, nel 1950 (Qualcuno da amare, La Tartaruga, 1994). Seguirono Excellent Women (1952), Jane and Prudence (1953), Less than Angels (1955), A glass of Blessing (1958) poi, inspiegabilmente, il suo editore, Jonathan Cape, e come lui molti altri, si rifiutò di pubblicare  An Unsuitable Attachment, poi pubblicato postumo nel 1982, così come An Accademic Question, che uscì nel 1986. Erano gli anni Sessanta e la sua prosa, priva di ribellismo e passioni forti, ritenuta anacronistica per quei tempi, non attraeva più.  Per l'autrice cominciò un lungo silenzio, un vero e proprio oblio, in cui, nonostante l'amarezza, continuò a scrivere e a dedicarsi al suo lavoro londinese, fino alla pensione, che arrivò nel 1974, allorché decise di andare a vivere, con la sorella Hilary e gli amati gatti,  a Barn Cottage, nel villaggio di Finstock, Oxfordshire.


Ma cosa le veniva rimproverato? Barbara Pym scriveva di amenità come camere d'affitto in edifici condivisi, ristrettezze normali del dopoguerra, pesche di beneficienza,  lavoro e rapporti tra colleghe e colleghi, traslochi, garden party in quartieri non completamente ricostruiti dopo la devastazione della  guerra, cura dei fiori in chiesa, razionamento del cibo, infinite tazze di tè offerte, ricevute e desiderate. Poco importanti le trame, che  vedevano in azione pensionati, impiegate, bibliotecarie, antropologi, curati anglicani da sposare, tipi e tipe eccentriche, persone non  particolarmente belle, eppure affascinanti, donne incuranti del loro aspetto, che magari indossavano vestiti smessi da altri, molto attive in parrocchia.  Scriveva di zitelle sicure di sé, quando ancora la parola single non le designava, che sapevano vivere senza un uomo, un amore, dignitosamente sole, o che anelavano ad affetti pacati con uomini apparentemente noiosi,  donne che coltivavano molti interessi, attive nella comunità accademica, o in campagna, o in parrocchia. Insomma  "donne eccellenti", come il titolo del suo più celebre romanzo (La Tartaruga, 1985, il primo tradotto in italiano). Raccontava una vita apparentemente tranquilla che nascondeva nevrosi e rimpianti, sublimati nella devozione, o nell'impegno personale, nelle buone maniere o nel pettegolezzo appena accennato. Un mondo molto british dove non scoppia la tragedia e la quotidianità,semplicemente banale, è  pur sempre un'opportunità di vita.


A ridarle notorietà sopraggiunse la segnalazione delle sue opere, nel 1977,  da parte di due personalità della cultura come Lord David Cecil e del poeta Philip Larkin, che la definirono l'autrice più ingiustamente sottovalutata del secolo. Così le si riaprirono le porte delle case editrici e vennero ristampati i romanzi precedenti. Manoscritti coperti di polvere videro infine la luce, come Quartet in Autumn (1977) e The Sweet Dove Died (1978). Nel nostro Paese tra i suoi estimatori vi furono Carlo Fruttero e Franco Lucentini che la fecero conoscere a Italo Calvino e, sebbene tardivamente, i suoi romanzi furono finalmente tradotti e pubblicati anche da noi.

Barbara Pym godette della sua ormai insperata fama solo pochi anni perché un tumore la stroncò l'11 gennaio 1980. Sua sorella e l'esecutrice testamentaria, Hazel Holt, diedero alle stampe l' autobiografia  A Very Private Eye che raccoglie i diari e molti appunti di scrittura. Furono pubblicati A Few Green Leaves (1980), l'ultimo romanzo, finito appena prima della morte, e due testi scritti negli anni Quaranta, Crampton Hodnet (1985) e Civil to Strangers (1987). Holt, sua amica e collega dal tempo in cui lavoravano insieme a Londra,  ne scrisse  la biografia A Lot to  Ask: A Life of Barbara Pym.

Nel 1986 fu fondata al St Hilda's College di Oxford la Barbara Pym Society, che organizza un convegno annuale, cura  una rivista semestrale e si propone la conoscenza e l'approfondimento delle sue opere. Leggerla ora, a quarant'anni dalla sua morte, riserva ancora piacevoli sorprese per l'ironia leggera che sprizza dai dialoghi intelligenti e garbati, risolti in uno stile limpido, senza fronzoli. 

Si può definirla, a buona ragione, un'autrice senza tempo, ma non è, appunto, la caratteristica dei classici?


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https://vitaminevaganti.com/2020/05/30/rileggere-barbara-pym/


Olive, ancora lei




Una tranquilla cittadina del Maine è la cornice dell'ultimo romanzo di Elisabeth Strout che vede protagonista ancora Olive Kitteridge, conosciuta nel libro che valse all'autrice il Premio Pulitzer nel 2009.
Costruito su più racconti,  questo Olive, ancora lei  (Einaudi 2019) non potrebbe essere titolo più adeguato per una storia che  ripropone la stessa protagonista con tutta la sua brusca franchezza, solo più vecchia e con più acciacchi. Nonostante l'età avanzata, Olive è ancora attiva e ben decisa a prendersi la vita che le rimane, a dispetto di una nuova, sottile malinconia che si insinua tra i pensieri e i rapporti personali, a partire da quello, sempre conflittuale, con il figlio Christopher, destinato però a riservarle un'insperata sorpresa.

E quale sorpresa più grande di un nuovo amore? Sarà Jack Kennison a farle cambiare casa e stravolgere la sua routine. Ma anche lui, già professore ad Harvard e custode di una falsa accusa di molestie ai danni di una collega carrierista, non è immune da rimorsi e tristezza. Molto realisticamente l'autrice scende nei particolari del loro ménage di anziani, turbato dal pensiero della morte e, talvolta, dai rimpianti per i legami precedenti. Ci sono le passeggiate lungo il porto e le gite in macchina nelle cittadine vicine,  distese sotto cieli tersi e una natura descritta nell'avvicendarsi delle stagioni con pochi tocchi emozionanti. Ci sono anche i piccoli battibecchi  allusivi e non mancano le effusioni amorose vissute tra imbarazzo e desiderio mai sopito.

Sembra quasi impossibile leggere questo romanzo senza ripescare i precedenti dell'autrice  perché Strout fa evolvere, o semplicemente invecchiare, i personaggi riportandoli in altre storie.  Tra gli altri, qui ritornano i fratelli Susan, Bob e Jim (I ragazzi Burgess, Fazi Editore, 2013) entrambi al secondo matrimonio e stretti in una situazione paradossale,  con Bob che preferirebbe vivere a New York ma è intrappolato nel Maine per desiderio della moglie, e il fratello Jim, che adora il Maine ma vive a New York per compiacere la moglie. 
Si ricorre volentieri ai romanzi precedenti non solo per ricucire la trama, piuttosto per non perdersi le gemme disseminate da Strout  nei dialoghi scarni e verosimili e, nondimeno,  nelle asciutte descrizioni che a scuola potrebbero essere stigmatizzate come banali:
«I tulipani morirono, gli alberi si colorarono di rosso, le foglie caddero, venne la neve» (Olive Kitteridge, pag.213)
Non manca però un delicato lirismo:
«Fu un autunno stupendo. Le foglie non si staccarono dagli alberi e presero colori vivissimi, come non se ne vedevano da anni [...] E su tutto questo splendeva un bel sole, un giorno dopo l'altro. Pioveva soprattutto di notte, e la temperatura calava parecchio, ma le giornate non erano troppo fredde né troppo calde. Il mondo brillava e i gialli e i rossi, gli arancio e i rosa chiaro erano semplicemente meravigliosi per chi percorreva la strada verso la baia.» (Olive, ancora lei, pag.190).

L'autrice descrive i luoghi come lo farebbero i suoi personaggi, e Olive non è tipa da aggiungere parole a quelle strettamente necessarie, sincera fino al limite della gentilezza, talvolta scontrosa e irascibile. Facile definirla una vecchia bisbetica, eppure non è priva di sensibilità, infatti al suo sguardo non sfuggono i problemi e le necessità delle persone, a cui presta  aiuto senza risparmiarsi. È stata un'insegnante di matematica e, tra gli abitanti della città, le capita non di rado di riconoscere alunni o alunne, o di essere riconosciuta da loro e sorprendersi per il percorso della loro vita.  Olive osserva i cambiamenti attorno a lei con empatia, anche se si scontrano con la sua identità o mettono in forse le sue premesse valoriali e le sue consolidate abitudini. C'è in lei una determinazione, un attaccamento alla vita, a quello che offre, che la fa amare e la rende indimenticabile.

Celebrata come una delle più grandi scrittrici americane, Elisabeth Strout viene sovente paragonata, per  temi e stile a John Steinbeck e Anne Tyler e la sua popolarità è progressivamente cresciuta dopo il 2009 quando raggiunse il grande pubblico con le vicende di Olive Kitteridge. Nessuna sorpresa perciò se anche questo romanzo, in un certo senso il sequel,  giunto dopo una decina d'anni e altri romanzi, sia stato accolto favorevolmente dalla critica e dai lettori, ma è interessante  osservare come l'autrice non si senta sopraffatta dal successo, come dichiara nelle interviste più recenti,  e continui a vivere e scrivere tra New York e il Maine.


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https://www.heraldo.it/2020/05/29/torna-olive-la-voce-schietta-della-provincia-americana/

L'isola delle madri


Mamme uovo, mamme canguro, mamme giardiniere. Quanti aspetti può assumere una madre, o meglio, di cosa si compone la maternità? La scrittrice e giornalista Maria Rosa Cutrufelli ne L'isola delle madri esplora questo tema complesso in forma di romanzo apparentemente distopico, in realtà molto più vicino alla nostra attuale esperienza di quanto possa sembrare.

Il libro, uscito per Mondadori lo scorso marzo, ambienta la narrazione su un'isola, al centro del Mediterraneo, dominata da un vulcano e l'ambiente, lì come altrove, risente dei danni inferti ripetutamente alla natura: inquinamento atmosferico con  conseguenti variazioni climatiche, piogge acide, desertificazione del terreno, e poi fiumi asciutti e mari infestati dalla plastica. Nell'arco di due decenni sono sparite le stagioni e la situazione si è complicata per interi  paesi evacuati, chi viveva a valle  si è rifugiato in montagna  e viceversa. A tutto questo si aggiungono le forti limitazioni alla libertà di movimento delle persone perché i passaggi, da zona a zona, sono vigilati da un enorme spiegamento di forze dell'ordine, che richiedono visti e pedaggi  per arginare le migrazioni interne, pericolose perché  tutti «hanno la memoria fresca di quanto hanno perso».

Leggere questo romanzo nella fase 2 del Covid 19 può produrre un'inquietante sensazione eppure, come spiega l'autrice in chiusura, parlare della «fragilità dei nostri vascelli» è utile e doveroso perché è «un tema caldo, che divide gli animi e l'opinione pubblica» e fa riflettere sull'oggi e sul domani.

In un mondo stravolto e  colpito dalla "malattia del vuoto", ossia la sterilità diffusa che minaccia la conservazione della specie umana, si ritrovano quattro donne, Livia , Kateryna, Mariama e Sara, provenienti  da Paesi diversi e portatrici di storie e problemi differenti. Maria Rosa Cutrufelli,  voce importante del movimento femminista, si è già misurata con altri romanzi e saggi che indagano il mondo delle donne sotto il profilo dei diritti e non si è sottratta nemmeno all'argomento più divisivo del movimento, la cosiddetta "maternità surrogata", meglio spiegata come "gravidanza per altri". 

Con empatia e una visione che pone al centro della questione le decisioni delle donne, Cutrufelli racconta vite, ambizioni e sofferenze di quattro donne che si incontrano in un luogo deputato alla natalità, come altri sparsi nel mondo, ma votato specificamente alla ricerca. Far nascere bambini e bambine da ovociti e gameti donati, dalle provette alle braccia accudenti, in un percorso monitorato scientificamente tra desiderio negato e desiderio soddisfatto, questa è la mission della Casa di maternità.
Sara ne è la direttrice, abituata a occuparsi delle donne «della miniera in via di esaurimento del loro grembo» ed è proprio lei a spiegare a  sua figlia Nina che non viene «dal caldo delle lenzuola» ma da un percorso più lungo e tortuoso in cui «non c'è solo sofferenza e il rammendo non è inutile se poi ci sono vagiti e piccole bocche sdentate che ti fanno pensare al futuro. È bello vedere l'idea del futuro che si fa strada, a poco a poco, dentro lo strappo del Grande Vuoto.». Sara si adopera per  favorire la relazione fra chi dà e chi riceve, perché diversamente si ridurrebbero le donazioni a una semplice cessione di materiale genetico che forse può salvare la specie, ma non l'umanità.

E Nina, una voce narrante che appare a tratti e cuce, in un certo senso, l'intero racconto, riconosce a tutte le sue "fate madrine" un ruolo importante per la sua esistenza: Livia che l'ha pensata e le ha dato il nome, Mariama la mamma canguro,  Kateryna la mamma uovo e poi Sara, con le sue parole e i suoi gesti, la mamma giardiniera, che l'ha aiutata a ricostruire la sua storia, per avere la giusta consapevolezza di sé.

Cutrufelli maneggia i temi dell'ambiente e della maternità con sapienza e delicatezza, riesce a far respirare umanità tra le righe e ristabilisce il valore della relazione in quel mondo irrimediabilmente danneggiato, una cornice distopica che perde progressivamente rilievo a fronte del concetto di  maternità che «attraversa il corpo delle donne e va oltre. Che le possiede con una forza estranea eppure intima. Terribilmente intima, perché si nasce sempre in due, anche se poi si muore da soli».

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Altri testi sull'argomento di cui si è già occupato questo blog:

Di mamma ce n'è più d'una, Loredana Lipperini, Feltrinelli, 2013.
L'ampia trattazione di Lipperini dà risalto alla retorica del sacrificio materno e del suo contraltare, l'ipermadre, madri totali contro madri super impegnate fuori e dentro casa.

Culle di vetro. Storia della procreazione assistita,  Margherita Fronte, Enciclopedia delle Donne, 2017.
Per una storia del "percorso a ostacoli" della procreazione assistita, tra pregiudizi e leggi avverse o inesistenti, raccontato dall'antichità ai giorni nostri,  con la tenacia dei ricercatori e la pazienza delle donne.













venerdì 12 giugno 2020

La vita bugiarda degli adulti

Parlare di Elena Ferrante scostandosi dall'opinione corrente equivale più o meno a un insulto perché è considerata, chiunque si celi sotto questo pseudonimo, un'autrice di valore. Leggere La vita bugiarda degli adulti, il suo ultimo romanzo pubblicato da edizioni e/o, come tutti i precedenti, con lo sguardo condizionato dal grande clamore mediatico dovuto al  successo della sua famosa quadrilogia,  non è fuorviante perché rapidamente  ci si addentra nel percorso di crescita narrato  da un io quindicenne, sofferto  e verosimile. Giovanna vive in una famiglia che assegna un posto importante alla cultura, i genitori sono insegnanti, la casa è piena di libri, si parla un italiano forbito, gli amici sono colti e raffinati, le sono state date spiegazioni chiare ed esaurienti sulla sessualità e non ha ricevuto una formazione religiosa.

Poi, una frase gettata con leggerezza dal padre, le apre un baratro di dubbi su di sé, sulla sua famiglia, sul presente e sul futuro. A questo punto Giovanna vuole cucire i brandelli di discorsi che si rivelano come altrettante bugie e, nello sforzo di costruire la sua identità, si allontana dai genitori a cui revoca definitivamente la fiducia perché le sue certezze marmoree si sgretolano sotto l'evidenza di nuove informazioni parziali, quasi estorte, che le impongono un'altra visione della sua storia.

La cornice in cui si muovono i personaggi è una Napoli piena di contrasti, con zone di case rispettabili e persone gentili, e zone degradate, lontane, quasi un'altra città dove si parla un dialetto scurrile.
Giovanna si confronta con la realtà che non è come appare, le storie delle persone sono diverse, le persone sono diverse, le prospettive di vita sono diverse e, per alcuni, segnate dall'indigenza e dall'ignoranza. Questa ragazzina ha smarrito l'ancoraggio con i genitori e naviga a vista trascurando la scuola, destreggiandosi tra le menzogne degli adulti, e facendo entrare nelle sue abitudini, per la prima volta,  la preghiera e la finzione in egual misura.
Nella sua nuova solitudine rivede anche  i paradigmi dell'amicizia e programma freddamente la sua iniziazione sessuale mentre attorno a lei cambia la geografia dei luoghi e dei rapporti affettivi  di riferimento.

Con una penna intinta di realismo, come sempre si ritrova in Ferrante, si snoda il racconto della maturazione di un'adolescente che costruisce un'opinione di sé e del suo posto nel mondo fuori dagli schemi, incurante delle convenzioni,  e lontano da quei sentimenti che, come l'amore, possono condizionare e rendere schiavi.

La vita bugiarda degli adulti, Elena Ferrante, edizioni e/o, 2019.





martedì 28 aprile 2020

Middlemarch






In questi giorni di forzato confino domestico non è raro dedicarsi alle riletture e, a me, è sempre gradito riprendere in mano testi letti nella prima giovinezza in pubblicazioni ridotte e illustrate,  rivisitandoli con un occhio da terzo millennio e, finalmente, in edizione integrale. Ebbene, ne può nascere un innamoramento come nel caso ddi Middlemarch, dell'inglese George Eliot (1819 - 1878) dalla cui penna è uscito il più famoso Il mulino sulla Floss.
Approcciare un tomo di ottocentoventicinque pagine con una scrittura densa, un registro medio alto, citazioni dotte che richiedono il ricorso alle note, e poi descrizioni puntualissime di luoghi e persone, può far esitare. Tuttavia questo spaccato di provincia  si rivela uno studio profondo di persone e pensieri e, dopo poche pagine,  non pare di trovarsi nell'Ottocento inglese e campagnolo, tanto le emozioni e i caratteri sono universali e senza tempo.
In questo romanzo alcuni giovani si muovono, secondo le convenzioni del tempo, per trovare il loro posto nel mondo, si innamorano, si sposano, cercano un lavoro, o un modo per trascorrere il tempo, o per impiegare il loro patrimonio, circondati da adulti che vogliono indirizzarli, o piegarne gli slanci con il favore delle tradizioni. Sebbene rigidamente divisa in classi, quella società vede anche  in azione spiriti liberi e idealisti come Dorothea e Tertius, entrambi votati a cause non comuni, il supremo bene caritatevole per l'una e la speculazione scientifica per l'altro, poi entrambi coinvolti in matrimoni deludenti, con un prezzo elevato da pagare in termini di adattamento e tristezza. Ci sono anche giovani più convenzionali e dotate di spirito pratico, come Mary e Celia, che vedono con chiarezza quale sia il loro futuro e si adagiano nel  ruolo di figlie, mogli e madri. E donne frivole ed egocentriche come Rosamond, che riesce a piegare alla sua volontà persino  il desiderio di ricerca del marito. Giovani gentiluomini sfaccendati e dediti al gioco come Fred, spudorati lestofanti come Raffles, ambigue figure come Bulstrode, che vivono sul confine sottile tra crimine e legalità. Buoni curati e signore dedite al pettegolezzo, baronetti che vanno a caccia e imprenditori sempre in crisi economica, una classe benestante e molto osservante dei crismi religiosi, decisa ad allontanare da sé chi non rientra negli schemi dettati da rango e censo. Si va a piedi a Middlemarch e, chi se lo può permettere, in calesse o carrozza, ma sta arrivando la ferrovia, con il vento nuovo del progresso che costringe a confrontarsi con le novità e dividere i poderi.
Su tutto, la narratrice onnisciente Mary Ann Evans, celata dietro l'eponimo George Eliot, imbastisce una trama fitta di avvenimenti e sviluppa un discorso profondo sulla scienza medica, sul ruolo e la preparazione dei medici, il modo di prescrivere le ricette e somministrare i farmaci, e la possibilità di arginare e curare le malattie contagiose. Ne raccomanderei la lettura a chi ha prestato il giuramento di Ippocrate, ma anche a chi, come me, pensa che la medicina odierna sia ancora impastoiata tra artigianato e sciamanesimo, la lettura può risultare persino divertente grazie alle non rare perle d'ironia.
L'autrice aveva    cinquantanove anni  quando scrisse questo romanzo, che riposò sugli allori dei precedenti e fu subito acclamato quale suo capolavoro. Virginia Woolf ne tesseva le lodi da par suo dicendo che i libri di Eliot «ci regalano un banchetto abbondante» e «le sue simpatie sono per la gente comune e agiscono con la massima felicità quando indugiano sull'ordito domestico di gioie e dolori. [...] Il flusso di umorismo che ella versa così spontaneamente dentro una figura, una scena dopo l'altra, finché non è fatto rivivere l'intero tessuto dell'antica Inghilterra rurale, ha molto in comune con un processo naturale che lascia ben poco spazio alla critica. Accettiamo, sentiamo quel delizioso calore e quella libera emanazione di spirito che soltanto i grandi scrittori creativi ci procurano. [...] ella raccoglie nella sua ampia stretta un grosso mazzo degli elementi principali della natura umana e li raggruppa senza rigidità, con un intelletto tollerante e sano che, come si scopre alla rilettura, non soltanto ha mantenuto le sue figure fresche e libere, ma ha conferito loro una presa inattesa sul nostro riso e sulle nostre lacrime».
In particolare, delle eroine di Eliot sottolinea che «cercano la loro meta nella cultura, nei compiti quotidiani della femminilità [...] non trovano quello che cercano» perché  «l'antica consapevolezza della donna, carica di sofferenze e di sensibilità, e per tante epoche muta, sembra in loro aver colmato il recipiente e quindi essere traboccata». Così come fu  per George Eliot  poiché «il fardello e la complessità dello stato femminile non bastarono: lei dovette sporgersi oltre l'asilo e cogliere per sé gli strani coloriti frutti dell'arte e del sapere».
La penna ammirata di Virginia Woolf ci guida nell'apprezzamento di questa autrice dimenticata e di questo romanzo e anche Antonia Byatt ci aiuta a rilevare, per esempio, che non c'è alcun  "risarcimento" nella storia in quanto i personaggi non vengono compensati dalle loro sofferenze con un matrimonio felice o una cospicua ricchezza, perché Middlemarch è sì un romanzo pieno di passioni, ma non è romantico.
Ognuno tragga quello che vuole dalla lettura, a me piace concludere con le parole che la stessa  Eliot usa per chiudere la sua opera:
Il suo spirito delicato, tuttavia, ebbe le sue delicate espressioni, anche se queste non furono granché visibili. [...] Ma l'effetto della sua esistenza su coloro che la circondarono si diffuse in misura incalcolabile: perché il bene crescente del mondo in parte dipende da azioni prive di storia; e il fatto che per me e per voi le cose non vadano così male come sarebbe stato possibile, è per metà merito di coloro che condussero fedelmente un'esistenza nascosta e riposano in tombe neglette.


Middlemarch, George Eliot (traduz. di Mario Manzari), BUR Rizzoli, 2008.
Le citazioni di Antonia  Susan Byatt sono tratte dall'introduzione al libro di cui sopra.
Le citazioni di Wirginia Woolf sono tratte da The Common Reader: First Series, The Hogarth Press, 1925, contenute nel volume Voltando pagina. Saggi 1904 - 1941, a cura di Liliana Rampello, ilSaggiatore, 2011.


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