Quentin Blake per Mathilda di Rohald Dahl

mercoledì 23 dicembre 2015

Charlotte

In gran parte inedite le cinquantasette lettere di Charlotte Brontë pubblicate in Ho tentato tre inizi nella traduzione accuratissima e armoniosa di Sara Grosoli,  con testo a fronte. Garantita la possibilità del confronto immediato con lo scritto originale, oltre al piacere di immergersi pienamente nell’atmosfera vittoriana, romantica ma scomoda e densa di problemi sociali. C’è  la brughiera intorno alla canonica di Haworth,  il vento sibila attraverso gli spifferi della casa, rabbrividiscono e si ammalano i sei fratelli Brontë, ma studiano, leggono avidamente e coltivano il piacere della scrittura. Charlotte, Emily e Anne  danno alle stampe le loro poesie e i loro romanzi adottando un nom de plume perché la realtà del tempo poneva ostacoli enormi alle donne, per accreditarsi come scrittrici e, come molte altre penne autorevoli (basti pensare a Mary Ann Evans, conosciuta come George Elliot), ricorsero a nomi maschili. Così le sorelle Brontë diventarono i fratelli Currer, Ellis e Acton Bell. Solo quando critici e lettori cominciarono a insinuare dei dubbi sulla loro identità, Charlotte e Anne si recarono a Londra per svelare all’editore il loro segreto. Nelle lettere di questa raccolta, prevalentemente rivolte all'amico ed editore  William Smith Williams, si svolge un dialogo incalzante di cui non si soffre il vuoto della controparte, perfettamente intuibile dal tono della scrittrice. Qui Charlotte affronta e dipana i nodi della sua scrittura, argomenta, cita, polemizza, si scusa ma non è mai evasiva e dimostra un particolare radicamento alla realtà nella cura degli affetti, della casa e delle relazioni. Qui racconta le sue letture, puntualizza simpatie e stima per alcuni autori, come W.M.Thackeray e lucidamente si fionda sulla grandezza di Jane Austen, definendola «una signora compita e molto assennata, ma una donna davvero incompleta e piuttosto insensibile» perché «ai sentimenti accorda solamente uno sporadico gesto […] distante». C’è un respiro che si nutre di letteratura e vita e c’è anche molto dolore, sebbene trattenuto trattenuto, in queste lettere che vanno dal 1847 al 1853 e comprendono il periodo in cui vennero a mancare il fratello Patrick e le sorelle Emily e Anne. La scrittura si fa «consolazione» per Charlotte  e una nuova eroina, Shirley, vede la luce nell’omonimo romanzo. 

Happy end non scontato in questo libro piacevole, da gustare in poltrona (684 pagine!) guidati da un narratore onnisciente che suggerisce, chiosa, anticipa quasi i dettagli dell’intreccio. Shirley è una giovane donna che sceglie autonomamente chi sposare, ignorando le convenzioni imposte dalla famiglia e dalla classe sociale, è una persona solidale con i reietti, che mostra di conoscere le sue fragilità e rivendicarle senza temere il giudizio altrui.  Descrivendo curati goderecci che vivono nell’agio e poco sanno o capiscono dei poveri, l'autrice sostiene posizioni molto critiche nei confronti dei ministri della Chiesa, alienandosi le simpatie degli ecclesiastici suoi lettori. L’eco del suo dolore, per la perdita delle amate sorelle, è rintracciabile soprattutto nel personaggio di Caroline, dolce, malinconica  ma non priva di acume e progettualità, con un vuoto affettivo enorme per la mancanza di cure materne, aspira a un lavoro oltre l’orizzonte domestico, un destino diverso e più ampio di quello pensato per lei dallo zio tutore. Intorno alle due ragazze, i fermenti della società industriale, con la crisi dei proprietari delle fabbriche dovuta alla guerra, e la miseria conseguente per la massa dei lavoratori. Terreno a cui si era dedicata un’amica di Charlotte, Elisabeth Gaskell, che aveva già dato alle stampe  romanzi di ambientazione sociale. Nelle lettere della raccolta Ho tentato tre inizi  si rintraccia la genesi della loro amicizia e la stima profonda che le legava. Nessuna sorpresa se il padre di Charlotte, alla morte di lei, chiederà proprio a Gaskell di scriverne la biografia.


Ho tentato tre inizi. Lettere 1847-1853, Charlotte Brontë, traduz. e cura di Sara Grosoli, postfazione di Paola Bono, L’Iguana Editrice, 2015.
Shirley, Charlotte Brontë, traduz. di Fedora Dei, Fazi Editore, 2015.
La vita di Charlotte Brontë (The life of Charlotte Brontë), Elisabeth Gaskell, traduz. di Simona Buffa di Castelferro, Castelvecchi, 2015.

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Leggere Donna n°168/2015





lunedì 28 settembre 2015

Sembrava un corvo



Nuvolone, un paese avvolto nella nebbia e una maestra che, tanti anni prima, veniva chiamata la Signora dei Libri. Basta un attimo, un pretesto qualunque e affiora il ricordo di una grande paura infantile, è l'Uomo Nero, invocato per ottenere obbedienza o minacciare o punire:
"sporco e torvo
ha il BECCO come un CORVO,
il suo VERSO fa PAURA,
ogni NOTTE una sciagura"
Storia delicata e vera di Alfredo Stoppa che permette il confronto con un timore antico, irrazionale eppure paralizzante.
Sonia Maria Luce Possentini riesce qui a dipingere mirabilmente la nebbia, a tratteggiarne i confini, renderla sognante o tenebrosa, profonda come il nostro io più segreto, oscura come la notte eppure reale e densa di relazioni. 
Un libro che propone un viaggio di attraversamento dell'orrore, ancorché immaginato, adatto alla lettura di bambine e bambine che sanno già leggere da soli oppure che amano sfogliare albi illustrati di pregio e cullarsi nella voce di qualcuno che legge per loro.
Sembrava un corvo, Alfredo Stoppa, Sonia Maria Luce Possentini, Kite Edizioni, 2010.

venerdì 28 agosto 2015

Femminile esorbitante

Per ammissione dell’autrice, questo  non è un saggio «perché in qualcosa il discorso sarebbe senz’altro più disciplinato e il tono decisamente meno spassoso». Insomma, Chiara Turozzi, in Femminile Esorbitante, sembra divertirsi a narrare il lavoro di ricerca, studio e fatica di secoli di scrittura femminile. Non è una carrellata di protagoniste, aggiunge l’autrice, ma certo risulta un invitante catalogo di soggetti pensanti attivi nel comporre un ordine nuovo, da e per le donne.
A partire da Trotula de Ruggiero, medica della Scuola di Salerno che, nel 1050, scriveva il primo trattato di ginecologia e ostetricia, occupandosi anche del problema dell’infertilità e indicandone audacemente, persino,  la responsabilità maschile.
Le voci delle donne attraversano i tempi, gli ambiti, si infrangono contro le categorie consolidate e i baluardi della Chiesa, oppure la scelgono, perché anche misurarsi con Dio può inaugurare un’insolita libertà o, almeno, far saltare il controllo dell’uomo sulla propria vita e aprire allo studio.
Nel Settecento francese, alcune donne dell’aristocrazia inventarono un modo nuovo e salottiero per stare insieme  parlando di letteratura e politica.  Erano le Précieuse, le Preziose. Ma arrivarono gli illuministi, con l’idea di una sola e unica ragione e fecero finire il divertimento.
E la Rivoluzione Francese, a dispetto dell’universalità dei diritti di cui si faceva portavoce, soffocò la libertà delle donne, infatti Olimpe de Gouges fu ghigliottinata anche per la sua coraggiosa Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina (Declaration des droits de la femme et de la citoyenne, 1791).
Ma le donne sono inarrestabili, afferma Turozzi, penna in una mano e mestola nell’altra, scrivono e scrivono e pensano, pensano. Declinano ragione e sentimento, come ci insegna Jane Austen (1775 - 1817), e magari si rifugiano sotto pseudonimo, come Mary Anne Evans (1819 - 1880), che pubblica al maschile, col nome di George Eliot, e ci regala ritratti in bilico tra desideri grandiosi e quotidianità mediocre. Le donne scrivono, indignate e curiose del mondo, sempre, come Charlotte Brontë (1816 - 1855), e impegnate, come Doris Lessing (1919 - 2013) a scoprire una nuova libertà per le donne, né emancipate, né asservite.
Perché donne non si nasce, si diventa, ce l’ha insegnato Simone de Beauvoir (1908 - 1986) che, ne Il Secondo Sesso (Le deuxième sexe, 1949) chiarisce con fermezza: «è l’insieme della storia e della civiltà a elaborare quel prodotto intermedio tra il maschio e il castrato che chiamiamo donna».
Nel testo di Turozzi (che non è un saggio, secondo lei!), ampi stralci antologici illustrano e danno ragione del percorso che vuole mostrare. Risulta piacevole perdersi nella scelta dei brani e accogliere lo stimolo a ripescare titoli di culto e autrici come Simone Weil (1909 -1943), Hannah Arendt (1906 - 1975), Betty Friedan (1921 - 2006), per rituffarsi nei concetti di nascita, relazione, differenza, mistica della femminilità. E poi riscoprire il Manifesto di Rivolta Femminile, del 1960, di Carla Lonzi (1931 - 1982), che promosse nel nostro Paese, mutuandola dagli Stati Uniti, la pratica dell’autocoscienza. È il caso di dirlo, che belli quegli anni, con la nascita di collettivi femministi a Roma, Milano e ovunque; si parlava di oscuramento del soggetto maschile e si faceva strada il concetto di differenza, imprescindibile condizione dell’identità umana. 
Letterate e filosofe affollano le pagine di Femminile Esorbitante, Julia Kristeva (1941), Virginia Woolf (1882 - 1941), Sylvia Plath (1932 - 1963),  e molte altre, impossibile ricordarle tutte senza scadere nell'elencazione che sminuirebbe la loro misura e il posto che si sono conquistate nella costruzione della consapevolezza delle donne. Questo testo ricorda, annota, chiosa con apparente leggerezza il loro dibattito fecondo di prospettive e poi culla un sogno: la scrittura come canto e consolazione, monumento all’urlo del silenzio.

Femmibile esorbitante, Chiara Turozzi, L'Iguana Editrice, 2012.

lunedì 10 agosto 2015

La bastarda degli Sforza

Una ragazza di nobile casato, Caterina, ha avuto accesso all'istruzione, non scontata per una donna nel Quattrocento, ha ricevuto un addestramento militare come i suoi fratelli ed è la pupilla di suo padre, il temibile Galeazzo Sforza. E allora perché viene immolata sull'altare della ragione di stato, in spregio agli affetti più cari e persino al buonsenso?
Carla Maria Russo, autrice di La Bastarda degli Sforza, rappresenta, anche in quest'opera, come nella precedente, La sposa normanna, una donna del passato che ha dato prova di grande coraggio sfidando le leggi e le convenzioni del suo tempo.
La ricostruzione storica è puntuale e sostenuta da una ricerca accurata sulle fonti, completata da un piglio narrativo moderno che interviene su sentimenti e  motivazioni, rendendo la lettura scorrevole e avvincente.
Caterina Sforza è ancora una bambina che gioca con le armi sotto gli occhi compiaciuti di suo padre quando si abbatte su di lei la scure della tragedia. Nata da un'unione irregolare e cresciuta da una matrigna affettuosa, è benvoluta da tutti, nella casa-fortezza degli Sforza, a Milano, eppure le viene imposto di pagare un prezzo elevatissimo, quasi dovesse compensare i benefici ricevuti.
Tutto  e solo per salvaguardare il destino di potere della famiglia. 
Ci vuole una forza di carattere non comune per sopravvivere e Caterina ne possiede tutte le caratteristiche, infatti  si adegua alla sorte, mentre si infrangono le sue certezze infantili e il suo sguardo sul mondo, affronta il dolore e riesce a ritagliarsi un'autonomia di giudizio e di azione. In seguito, sarà ancora lei e solo lei a salvare l'onore e il patrimonio familiare, grazie alla sua lucida capacità di analisi e alla prontezza di agire.
E poi il respiro rimane sospeso perché  l'autrice ci costringe a una calcolata sofferenza in attesa del prossimo romanzo che sveli la conclusione degli avvenimenti! 
Oltre al piacere di scoperta della trama, Carla Maria Russo  ci induce a riflettere  su una donna che esprime valori forti, ancora largamente condivisibili, poiché ogni sua scelta, in un'epoca tanto lontana e avversa alle donne, costituisce un esempio simbolico e paradigmatico per tutte noi, ancora oggi.

La bastarda degli Sforza, Carla Maria Russo, Piemme, 2015.

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Leggere Donna n°169/2015

lunedì 22 giugno 2015

Séraphine de Senlis


Eccentrica, senza istruzione, impegnata in faticosi lavori domestici per le famiglie abbienti del paese di Senlis, Séraphine Louis (1840-1942), trovava nella pittura la sua stanza tutta per sé.  Dipinse con la convinzione di avere un'ispirazione divina, spogliandosi "dell'abito che altri le avevano cucito addosso" per "andare oltre la dimensione della sofferenza".
Il libro di Katia Ricci ne ripercorre la vita di povera orfana, dalla fanciullezza in convento alla scoperta del suo talento, fino alla tragica fine in manicomio. Ma l'autrice fuga i dubbi circa la retorica del legame tra creatività e malattia mentale. Se è vero che si trovano punti di contatto tra la sua produzione artistica e quella dei malati di mente, o Art Brut, per la definizione di Jean Dubuffet (1901-1985), è altrettanto vero che Séraphine aveva scoperto nella pittura un canale comunicativo prodigioso e lo usava consapevolmente perché le permetteva di ovviare all'imbarazzo della lingua che, al contrario,  non padroneggiava.
Quando si trovava immersa nella natura che tanto amava e osservava,  e il racconto di Ricci ne mostra quasi un ologramma, trovava una speciale serenità e usava il mezzo a lei più congeniale e semplice per esprimerla: dipingere. Anche dopo una giornata di "lavoro nero", come definiva le fatiche di domestica, si ritirava nella sua modesta casa, chiudeva fuori il mondo e dava corpo alle sue rappresentazioni mentali, creando colori con misteriosi intrugli e dipingendo su quello che aveva, inizialmente solo tavolette, cappelliere, scatole e poi, quando conobbe il successo, tele sempre più grandi.
Il suo talento venne individuato da Wilhelm Udhe, un mercante d'arte che diventò, con la sorella, suo mecenate e amico e fu, tra l'altro,  tra i primi studiosi interessati agli artisti naifs o primitivi. Rimase abbagliato dalle opere di Sèraphine e fu sicuramente l'artefice del suo successo,  portando questa donna, umile e dimessa, a cui i concittadini indirizzavano commenti pietosi o malevoli, alla notorietà. In seguito a motivi legati alla sua condizione di ebreo e all'approssimarsi della guerra, purtroppo la abbandonò a un destino di solitudine, ancora più difficile da accettare, per Séraphine,  dopo aver conosciuto agi insperati e amicizia.
Nel ritratto di Ricci emerge una donna dotata di un'energia creativa incontenibile, nella cui opera è ravvisabile un' evoluzione precisa nella tecnica e nei soggetti, fino alla stravaganza che muta in follia.
Quarantotto tavole illustrano la parabola pittorica di Sèraphine e fanno apprezzare i dettagli, la composizione e le scelte cromatiche. Per chi si interroga sul rapporto tra arte e vita, ama le biografie contaminate dai problemi dei loro protagonisti o vuole conoscere una donna fuori dagli schemi, questo libro si offre come una narrazione imprescindibile e trasmette un desiderio.
A quando il pieno riconoscimento di questa artista tra le maggiori esponenti dell'arte del Novecento?

Séraphine de Senlis. Artista senza rivali, Katia Ricci, Luciana Tufani Editrice, 2015.

sabato 9 maggio 2015

L'invenzione della madre

Mattia e la madre.
Lui ha la passione del cinema ma non si decide a trasformarla in autentico lavoro. Lei è ammalata da tempo.
Mattia la accudisce perché le vuole bene.
Le vuole bene perché non può farne a meno.
Deve lasciarla andare, perché non può che essere così, ma non vuole.
Le labbra allora si schiudono ed esce un suono che è un canto
...
quel suono dà forma alla parola più docile e più forte che lui abbia mai pronunciato: Mamma.

L'invenzione della madre, Marco Peano, minimum fax, 2015.

sabato 25 aprile 2015

Bella ciao

Quasi del tutto scomparsi i testimoni,  la Resistenza pare materia per nostalgici. Tanto per ricordare quelli che si sono battuti o imbattuti nella guerra civile che è costata tante, troppe vittime, qualche libro da leggere, rileggere o anche solo sfogliare.  
Un quadro con il dente avvelenato lo presenta Giampaolo Pansa in Bella Ciao. Controstoria della Resistenza, addebitando ai comunisti la responsabilità, quando non l'imbecillità, di alcune mattanze. Come fosse stato un piano preordinato a tavolino, quello di far salire la temperatura dell'odio tra la gente, onde poter controllare meglio la situazione, a conflitto terminato e instaurare una dittatura di modello sovietico. Piano che avrebbe previsto l'assoggettamento progressivo delle piccole bande autonome sotto il grande ombrello delle brigate rosse e l'eliminazione fisica di quanti si ribellavano, fossero fascisti o compagni di lotta.
Una tesi discutibile però seriamente argomentata nel suo libro, ricco di documenti e testimonianze dirette.
Per chi preferisce la narrativa, che mette a nudo le miserie, gli scrupoli, i maneggi, la grandezza dei piccoli gesti e i pensieri più profondi con parole che attraversano il tempo, suggerisco di riconsiderare Il Partigiano Johnny, ancorché incompiuto e rimaneggiato a più riprese.
Sarà per la lingua, che Dante Isella ha analizzato accuratamente (La lingua del partigiano Johnny ne B. Fenoglio, Romanzi e racconti, Einaudi-Gallimard, 1992), 
sarà per l'atmosfera,
"Dopo le raffiche del mattino, il bosco aveva per lui un nuovo haunting, come di vera officina della natura, nel vibratile silenzio
sarà questo anglomaniaco Johnny, improbabile guerrigliero, simile a un cavaliere medievale, alla ricerca della banda a lui più affine, 
"...il vento lo spingeva da dietro con una mano intermittente, sprezzante e defenestrante, i piedi danzavano perigliosamente sul ghiaccio affilato. ma egli amò tutto quello, notte e vento, buio e ghiaccio, e la lontananza e la meschinità della sua destinazione, perchè tutti erano i vitali e solenni attributi della libertà"
saranno le descrizioni che sfiorano la lirica pur mantenendo il contatto con la realtà,
"Partì verso le somme colline, la terra ancestrale che l'avrebbe aiutato nel suo immoto possibile, nel vortice del vento nero, sentendo com'è grande un uomo quando è nella sua normale dimensione umana"
rimane un testo che stimola il pensiero critico, non la nostalgia. 
Per Pansa la Resistenza è stata
"sporca di sangue, piena di morti, gonfia di dolore", 
in Bella ciao sottolinea che
"la guerra civile è una malattia mentale che obbliga tutti a combattere contro se stessi".
A quando una rivisitazione di quella parte di storia senza censure politiche incrociate?

Il partigiano Johnny, Beppe Fenoglio, Giulio Einaudi editore, 1978 (scelgo  l'edizione 1994 perché riporta il saggio di Dante Isella e comprende le due versioni dell'autore, in particolare i capitoli I-XX della prima e XXI-XXIX della seconda).
Bella ciao. Controstoria della Resistenza, Giampaolo Pansa, Rizzoli, 2014.
Una repubblica partigiana. Ossola 10 settembre-23 ottobre 1944, Giorgio Bocca, Il Saggiatore, 1964.
L'Italia contemporanea (1918-1948), Federico Chabod, Giulio Einaudi editore, 1961.
Guerra partigiana, D. Livio Bianco, Giulio Einaudi editore, 1973.
Ponte rotto. La lotta al fascismo dalla cospirazione all'insurrezione armata, G. B. Lazagna, Sapere edizioni, 1972.




giovedì 23 aprile 2015

La nonna addormentata

Di una delicatezza rara, questo libro rende tristi noi adulti e pone domande ai piccoli lettori, basta essere pronti a rispondere, magari usando le parole dei sentimenti invece di quelle della ragione. Però non mi ha fatto piangere, né credo faccia piangere le bambine e i bambini che lo sfoglieranno e leggeranno.
Perché la nonna dorme da un mese, tutto il giorno e, anche se la mamma dice che è come la Bella Addormentata della fiaba, in attesa del Principe Azzurro che la risvegli con un bacio, il suo nipotino preferisce ricordarla com'era, prima di addormentarsi.
Gli leggeva e raccontava tante storie, lo abbracciava e lo faceva "scomparire nel suo amore". E preparava la pasta al pomodoro più buona del mondo.
Aveva anche delle simpatiche stranezze, come agghindarsi e ballare il walzer, tutta sola. Oppure strappare i fiori del giardino per preparare la zuppa. Ora che il principe  l'ha portata via, gli manca tanto. 
Quando i bambini si confrontano con il tema della morte non usano le nostre categorie di pensiero e la poesia del disegno e le parole di questa storia sono fatti per loro. E per tutti.

La nonna addormentata, Roberto Parmeggiani, Joao Vaz de Carvalho, Kalandraka, 2015.

martedì 14 aprile 2015

L'amica geniale




Vorrei parlare di Elena Ferrante senza farmi condizionare dalle polemiche su questo pseudonimo, se possibile.

Che sia un lui o una lei, che sia di Napoli o di un altrove imprecisato, moglie di Domenico Starnone o single, non me ne cruccio.

Mi conforta la postilla di Umberto Eco del 1983 al suo impagabile Il nome della rosa: "L'autore dovrebbe morire dopo aver scritto. Per non disturbare il cammino del testo". Un po' esagerato ma efficace per sottolineare la centralità del testo rispetto il protagonismo autoriale.

Per testo intendo la quadrilogia de L'amica geniale, non le opere precedenti e, per una visione critica dell'intera produzione ferrantiana, rimando invece al saggio esaustivo di Viviana Scarinci.
Preferisco qui lanciare suggestioni di lettura di quelle malcontate milleseicentotrenta pagine che sono state pubblicate dal 2011 al 2014, con cadenza annuale e svizzera, per usare uno stereotipo, tale da nutrire un pubblico sempre più vasto e fidelizzato.
Se, come me, dubitate dei grandi successi da Top ten, fiutando magari la furba operazione editoriale, non conoscete ancora questa saga che assomiglia davvero tanto a una serie televisiva, con tutti gli ingredienti di intreccio e trama più accattivanti.
Ebbene, accostatela e ne sarete presi.
Io sono capitolata davanti a un regalo graditissimo, accompagnato da una dedica affettuosa che mi ha fatto rompere tutti gli indugi, il resto l'ha fatto la scrittura di Ferrante, inaspettatamente meritevole.
Rimarrete intrappolati in una storia di amicizia, tra Lila Cerullo ed Elena Greco, quest'ultima è la voce narrante che cala nella realtà del romanzo e, nel contempo, confonde continuamente i pani di verosimiglianza e fantasia. Una trappola che farà spostare appuntamenti per indugiare nella lettura e appesantirà lenostre borse per farci portare appresso il libro, onde poter leggere nei momenti liberi, in viaggio, in attesa...
Scoprirete un'amicizia, nata nell'infanzia, che avvicina e allontana Lila ed Elena nel corso dei decenni, fatta di gesti così generosi da stamparsi nella nostra memoria e di crudeltà neanche troppo sottili. Penso a quando Lila, di nascosto dal personale ospedaliero, veglia la madre di Elena, perché l'amica non può muoversi da casa, avendo appena partorito. Ma ricordo anche con fastidio il successo di Elena, dovuto alla sottrazione del manoscritto di Lila. Come dimenticare poi lo sgarbo della bambola gettata in cantina? Un atto simbolico e forte che siglerà l'inizio e la fine della storia. Un'amicizia, e una narrazione,  che attraversa geograficamente il nostro Paese, da Napoli, a Roma, a Torino e tocca i temi della dignitosa povertà datata anni Cinquanta, la vita nella periferia squallida, che agli occhi bambini è però un mondo quasi magico. E poi il Sessantotto, che sbaraglia gli schemi di aggregazione sociale, facendo immaginare un'improbabile solidarietà di classe, accompagnato dalla deriva terroristica da cui si salvano unicamente i più abbienti e cautelati e lascia nudi e soli i proletari  idealisti.
A mio parere, fa tutto parte del gioco ferrantiano di costruire una trama solida, ancorata alla realtà e anche alla cronaca, citando personaggi reali e immaginari ma muovendoli con sapienza burattinaia, nel filo della tradizione romance, dove i cattivi sono sempre tali, e i buoni anche.
Vi ricordate Achille ed Ettore? Ci si ritrova a parteggiare per Lila o Elena, dove Lila, la geniale, viene dipinta come la strana e persino la cattiva ed Elena, quella che subisce le angherie dell'amica, è la brava e studiosa. Per me, le attribuzioni sono da ribaltare. Anzi, se esistesse un fun club di Lila, ne farei parte perché la trovo un'amica fantastica, che vorrei aver incontrato.
In queste pagine c'è anche tanto amore mal diretto, non corrisposto, eppure tenace, a dispetto della ragione e della cultura di chi ama assurdamente e soffre. C'è prepotenza, malavita sempre più organizzata, sopraffazione dei più deboli. C'è l'aurora della coscienza femminista, negli anni Settanta, nemmeno identificata come tale, apparentata più alla libertà di vestirsi, fumare, disporre del proprio corpo e condividere il tempo con chi si vuole.
Un'amicizia che percorre tutta la vita, uno scenario accuratamente descritto e un coro di personaggi indimenticabili. Una saga non solo familiare, un affresco in cui perderci e/o rispecchiarsi.
Un feuilleton? Sì, anche, ma non dimentichiamo che ne scrissero anche Dumas, Dickens, Balzac, Flaubert, gli insospettabili Dostoevskij e Joyce, per tacere di altri grandi,  e consideriamo le loro opere dei classici.

L'amica geniale, Volume primo, Elena Ferrante, e/o, 2011.
Storia del nuovo cognome, L'amica geniale Volume secondo, Elena Ferrante, e/o, 2012.
Storia di chi fugge e di chi resta, L'amica geniale Volume terzo, Elena Ferrante, e/o, 2013.
Storia della bambina perduta, L'amica geniale Volume quarto, Elena Ferrante, e/o, 2014.
Elena Ferrante, Viviana Scarinci, Doppiozero, 2014.





giovedì 9 aprile 2015

Ciao per sempre


Che si tratti di fronteggiare il dolore della perdita o che finisca il nostro tempo vitale, la morte attraversa la nostra vita come un binario freddo e infine la conclude.
Simone de Beauvoir scrisse Une mort très douce nel 1964 (Una morte dolcissima, trad. Clara Lusignoli, Einaudi, 1966) e ne parlo a memoria perché lessi questo libro nel 1983, quando morì mio padre. Lo riprendo in mano, oggi, perché mi trovo, di nuovo, nella situazione che De Beauvoir seppe pennellare alla perfezione. Arginare la mancanza di una persona cara è impresa ardua, ancorché enfatizzata dalla potenza evocativa degli oggetti che ce la rammentano. Un libro, un profumo, un vaso sopravvivono ad una vita e già questo fatto è disperante. Ma la messe di ricordi che scatenano è ancora più sconvolgente. Non ci sono scatole nella mente, non vi si può racchiudere una memoria triste, bisogna riservarle un posto speciale nel cuore. 
E conviverci.





Grazie, Camilla. Mi hai accompagnata nella vita, sostenuta e perdonata. Mi hai mostrato la disponibilità umana come modo di essere, il gusto del bello, il senso del giusto.
Ciao per sempre, mamma.

giovedì 19 marzo 2015

L'età incerta



L'adolescenza è un periodo positivo non una catastrofe, esordisce la psicologa Silvia Vegetti Finzi alla Fondazione Centro Studi Campostrini. Se ne parla come di un periodo "vulcanico, esplosivo" ma è solo caratterizzato da sano vitalismo a cui giovano poche, chiare norme non imbriglianti, da cornice. Un contenimento  comprensivo e flessibile basato sulla fiducia, che induca ragazze e ragazzi a mettersi alla prova e non confermi lo sbaglio e la paura del confronto con i modelli suggestivi e inarrivabili proposti dalla società.
Vegetti Finzi racconta i nuovi adolescenti sottolineando l'attuale confusione di ruoli all'interno delle famiglie, che fa smarrire il soggetto vero della crescità: le ragazze e i ragazzi. Un indistinto "noi" appiattisce le vite dei genitori su quelle dei figli, ne fagocita le scelte, di fatto impedendole, per un malinteso senso di aggregazione che limita l'autonomia. Invece, a padri e madri è chiesta un'inversione di rotta, rispetto la funzione svolta nell'età precedente, adesso è il tempo dell'accettazione: dei possibili rischi o presunti pericoli, del gruppo dei pari, del progressivo distacco essenziale per la costruzione dell'identità, dell'aggressività che si accompagna alle rivendicazioni.
"Gli stampi della tradizione sono infranti" precisa la studiosa "ognuno deve imparare a gestirsi la propria crescita". Ai genitori spetta il compito di ascoltare i propri figli nella narrazione che accompagna la loro vita.


L'età incerta. I nuovi adolescenti, Silvia Vegetti Finzi, Anna Maria Battistin, Mondadori, 2000.

domenica 1 marzo 2015

L'ora di lezione

Un'ode al lavoro d'aula, finalmente, e viene da Massimo Recalcati che nel suo L'ora di lezione, ricorda come la lezione sia proprio il cuore stesso dell'insegnamento, troppo sovente soffocato da un apparato burocratico e dall'accanimento valutativo che costringe  le/i docenti a occuparsi di aspetti che poco o nulla hanno a che fare con l'apprendimento autentico.
Nell'incontro del 27 febbraio, a Verona, presso la Fondazione Centro Studi Campostrini, lo psicanalista Massimo Recalcati, introdotto da Davide Assael, ha intrattenuto un pubblico attento, disseminato nelle numerose sale della Fondazione.  A partire dal libro e rivisitando le sue esperienze di vita, ha spiegato cosa sia per lui l'erotica dell'insegnamento, perché la lezione non è mai un'esperienza solo intellettuale, e l'insegnante, con il suo stile, miscela di voce, gestualità e passione per quello che insegna, trasforma il libro, oggetto teorico,  in corpo e chi impara non è più una testa da riempire e basta, poiché anch'esso subisce una trasformazione, a sua volta, diventando un amante, che vuole scoprire, penetrare il segreto del corpo, già libro. Per l'autore non c'è apprendimento senza desiderio e compito dell'insegnante è suscitare questo desiderio.
Benedetti, nel senso di "detti bene" (io aggiungo: benedette!) dunque i bravi insegnanti che fanno della scuola l'unico "luogo di resistenza, in questo tempo" che sceglie sempre la via breve per ottenere tutto. Invece la scuola, se incontro di corpi vivi e pulsanti, e quindi luogo d'amore,  può permettere la trasformazione seguente, del corpo in libro ed evitare la funzione narcisistica per la propria immagine, l'uso strumentale del corpo, l'abuso stesso del corpo. E se, nel corpo a corpo, con le/i docenti, c'è un tempo in cui si è solo la loro caricatura, cioè si fa come loro, poi si può divergere e fare con loro, nel dispiegarsi del mistero della relazione generativa dell'insegnamento.
Temi complessi eppure così vicini alle nostre memorie scolastiche più intime e, talvolta, anche dolorose. 
Nel libro, l'autore approfondisce anche l'analisi della scuola del passato, che chiama Scuola-Edipo, e l'attuale, definita Scuola-Narciso. La prima sostenuta dall'alleanza tra genitori e insegnanti, basata sulla potenza della tradizione, vede "l'insegnante come un sostituto del Padre, di una Legge fuori discussione". Questa scuola, spazzata via dalle lotte studentesche del '68 e del '77, produceva obbedienza, e un "sapere senza soggettività, privato di singolarità". 
Mentre la Scuola-Narciso si basa sulla nuova alleanza genitori-figli, alleanza deleteria che disattiva "ogni funzione educativa da parte dei genitori" fortemente impegnati "ad abbattere gli ostacoli che mettono alla prova i figli [...] per garantire loro un successo nella vita senza traumi".
Ne consegue una solitudine profonda del corpo insegnante, una mancanza di adeguato riconoscimento sociale dello stesso, sospinto "verso la proletarizzazione economica" da un lato, e investito, d'altro canto, di un ruolo educativo sempre più vasto a fronte di famiglie incapaci di esercitare la potestà.

Una piacevole lettura, il testo di Massimo Recalcati, L'ora di lezione. Per un'erotica dell'insegnamento (Einaudi, 2013) e si candida sulla scena libraria come un'opera che suggerisce una visione insolita ai docenti di tutti i segmenti scolastici, proponendo anche un motivo di riflessione sulla genitorialità. 


mercoledì 18 febbraio 2015

P.D. James

Definita "la signora del crimine", ma l'etichetta è riduttiva per P.D. James.
Ha indubbiamente esplorato il genere giallo poliziesco, tuttavia nei suoi romanzi troviamo anche raffinate indagini psicologiche e minuziose descrizioni ambientali. Sono testi ricchi di riferimenti alla letteratura e all'arte; esplorano temi scottanti come l'abuso sui minori e la diffusione della droga, senza eludere la crudezza o limitarsi alla soluzione di un'enigma.
Phyllis Dorothy James, nacque a Oxford nel 1920, interruppe gli studi a sedici anni, per motivi familiari; si sposò a ventuno e, sempre per motivazioni analoghe, cominciò a scrivere attorno agli anni Cinquanta. La scrittura, da passione personale, diventò fonte di reddito. Lavorò poi per alcuni anni presso il Dipartimento di Polizia Criminale e ne trasse ispirazione, metodo d'indagine e accuratezza per i dettagli che ritroviamo nei suoi libri. Così come possiamo cogliere il suo amore per la poesia di di Thomas H. Eliot, l'apprezzamento per l'acume di Graham Green e l'ironia di Evelyn Waugh.
Il  primo romanzo, Copritele il volto (Cover her face,1962) presenta già il personaggio di Adam Dalgliesh, che comparirà anche in molte altre delle sue trenta opere, ispettore di polizia e poeta, non eroe infallibile alla Hercule Poirot, ma uomo vero, che ha conosciuto il dolore. Lo seguiamo nelle sue indagini sotto la pioggia, in riva ai fiumi, nelle chiesette dei villaggi immersi nelle brume della campagna inglese, o nel verde del Suffolk e dello Hampshire.
P.D. James ha dato grande rilievo anche ai personaggi secondari, cesellati nelle loro abitudini e manie, agli oggetti, all'arredamento degli interni, all'architettura. Le storie hanno un setting verosimile, quasi a sottolineare che gli omicidi sono commessi da gente comune, insospettabile, non necessariamente killer seriali, perché la fragilità psicologica è molto più diffusa di quanto parrebbe. I suoi personaggi leggono Hardy, ammirano le pitture dei Pre-Raffaelliti, sono medici, magistrati, infermieri, studenti. Traspare la sua fede anglicana perché almeno uno di loro, in ogni storia, è un religioso o uno studioso di religione, come lo stesso Dalgliesh, figlio di un vicario, che riflette costantemente sul fatidico binomio bene-male.
Portata alle stelle negli anni del governo Thacher, conobbe una popolarità minore nell'epoca Blair, che le preferì l'altra "signora del crimine", la sua cara amica Ruth Rendell.
La critica è divisa nei suoi confronti tra chi sostiene la morte essere per lei un semplice pretesto per raccontare storie e quanti pensano che le sue storie siano unicamente al servizio della vita.
P.D. James, scomparsa nel novembre scorso, riteneva che il più grande mistero fosse il cuore umano e compito del bravo romanziere, indagarlo.
Quanto ai personaggi dei suoi romanzi, non li considerava soggetti da buttare via o rimuovere meccanicamente, dovevano restare impressi nella mente di chi legge. A memento.

Dei suoi trenta libri, riporto e consiglio (solo) i titoli di quelli che ho letto, tutti tradotti in italiano e facilmente rintracciabili, prevalentemente nelle edizioni Mondadori. L'anno indicato è della prima pubblicazione in Gran Bretagna; il titolo in italiano talvolta risulta modificato.
Buona lettura,sono certa che non resterete delusi.
I primi che ho letto e i miei preferiti:
Un gusto per la morte (A Taste for Death, 1986).
Tutti i colori dell'autunno londinese e un ispettore Dalgliesh signorile, mai cinico, razionale e pragmatico.
Un lavoro inadatto a una donna (An Unsuitable Job for a Woman, 1972).
Qui compare Cordelia, l'investigatrice che animerà solo un paio di romanzi, ma risulterà indimenticabile, in carattere con il femminismo che nasceva in quegli anni; storia ambientata a Cambridge, tra studenti che studiano poco, feste hippy e segreti che rovinano delle esistenze.







Nella foto sono ritratte, da sinistra, Ruth Rendell e P.D.James.


Per cause innaturali (Unnatural causes, 1962).
Copritele il volto (Cover her face, 1962).
Una mente per uccidere (A Mind to Murder, 1963).
Scuola per infermiere (Shroud for a Nightingale, 1971).
La torre nera (The Black Tower, 1975).
Morte di un medico legale (Death of an Expert Witness, 1977).
Sangue innocente (Innocent Blood, 1980).
Un indizio per Cordelia Gray (The Skull beneath the Skin, 1982). Unico altro romanzo in cui compare l'investigatrice Cordelia,
Una notte di luna per l'ispettore Dalgliesh (Devices and Desires, 1989).
Morte sul fiume (Original Sin, 1994).
Una certa giustizia (A Certain Justice, 1997).
Morte in seminario (Death in Holy Orders, 2001).
La stanza dei delitti (The Murder Room, 2003).
La paziente privata (The Private Patient, 2008).
Morte a Pemberly (Death comes to Pemberly, 2011).  Questo romanzo si pone come un omaggio a Jane Austen, rappresentando un ipotetico proseguimento di Orgoglio e pregiudizio (Pride and Prejudice) ma con delitto e indagine, secondo lo stile di P.D. James. La prima parte risulta estremamente godibile, con dialoghi e situazioni permeati da un'ironia sottile, poi si avverte un cambio di tono (o di penna?) e il romanzo si fa didascalico, prevedibile.








lunedì 26 gennaio 2015

Giornata della memoria 2015: Rosa Bianca

Rosa Bianca è un libro (forse) assimilabile alla letteratura giovanile, in cui le tavole di Roberto Innocenti ci raccontano l'esperienza di guerra di una bambina. Esperienza non capita perché normalità e stupore si incontrano nell'infanzia e mancano gli strumenti e le informazioni per interpretare quello che succede.
Però Rosa Bianca è anche libro per adulti, per scoprire la Shoah con l' occhio di una bambina.
Il titolo non è stato scelto a caso, afferma l'autore nel risguardo di copertina, e rimanda a un gruppo di studenti che cercò di opporsi al nazismo. Furono tutti uccisi.
La Rosa Bianca del libro è una ragazzina che vede partire il suo papà e molti altri uomini del suo paese per la guerra, va a scuola e continua la sua vita senza gioia perché il papà non torna, e nemmeno arrivano più le sue lettere "piene di carezze e baci", e la mamma si veste di nero.
Un giorno una camionetta si ferma nella piazza del paese per un guasto al motore e ne fugge un bambino, subito fermato dal Borgomastro e riconsegnato ai soldati. Ma Rosa Bianca nota che il camion è pieno di bambini e, incuriosita, decide di seguirlo per vedere dove va.

Raggiunge un bosco e un posto desolato dove ci sono tanti altri  bambini, rivestiti appena di tela a righe, nonostante il freddo dell'inverno, e stanno con la mano tesa attraverso il filo spinato che li divide da lei.

Rosa Bianca capisce solo che hanno molta fame e cerca di portare loro, ogni giorno e di nascosto, un po' di pane e delle mele.
Ma arriva il momento in cui tutti fuggono dal paese e lei si chiede cosa ne sarà dei bambini nel bosco ...
Non ci sono parole per la tragedia, tutti fatichiamo a trovarle, Innocenti disegna e arriva dritto al cuore.


Roberto Innocenti ha ricevuto molti riconoscimenti per la sua opera, tra cui il prestigioso Hans Christian Andersen nel 2008 per il suo contributo alla letteratura per l'infanzia.
I suoi albi illustrati sono splendidi, per i dettagli e la tecnica unici e profondi, indimenticabili.
Da non perdere:

Rosa Bianca, Roberto Innocenti, la Margherita Edizioni, 2005.
La casa del Tempo, Roberto Innocenti, Roberto Piumini, la Margherita Edizioni, 2010.
Cappuccetto Rosso. Una fiaba moderna, Roberto Innocenti, Aaron Frisch, Luigi Dal Cin, la Margherita Edizioni, 2012.
(qui Cappuccetto Rosso si muove in un bosco che è la periferia di Londra e il lupo che incontra è un pedofilo).


giovedì 22 gennaio 2015

compleanno 2



Un tentativo maldestro di cake design ha prodotto questa torta zuccherosa, risultata più buona di quanto si potrebbe supporre, per il secondo compleanno di Lauradeilibri!
E allora grazie, grazie dal cuore a tutte le persone che mi hanno seguita, nella speranza se ne aggiungano sempre altre.
Grazie anche a Valentina ed  Elena, che questo blog hanno "rivestito" con me,
grazie a quanti hanno lasciato un messaggio, perché i feedback sono sempre utili e graditi,
grazie a a chi non ha mai scritto messaggi ma ha continuato a leggermi.
Ovviamente non finisce qui, ho ancora tanti altri libri in giro e in testa che vorrei condividere.
A presto

martedì 20 gennaio 2015

Il bambino perduto


La Francia ritratta nell'immediato dopoguerra: rovine, mercato nero, rancori e sospetti tra ex-collaborazionisti e non e poi orfani. Soprattutto l'orfanezza è rappresentata da Marghanita Laski (1915 - 1988) nel suo Il bambino perduto (Little Boy Lost, 1949), ma con discrezione e gratitudine rivolta a quanti se ne occuparono, durante e dopo la guerra, senza neppure disporre di risorse sufficienti per sfamare, accudire e istruire gli orfani.
Migliaia di bambine e bambini furono infatti raccolti, più che accolti, negli orfanatrofi d'Europa all'indomani del conflitto: 50000 in Cecoslovacchia, 280000 in Jugoslavia, 60000 in Olanda, 30000 in Romania, 50000 in Germania, come ricorda Anne Sebba nella postfazione dell'edizione inglese del libro. Nessuna sorpresa se osserviamo l'identico scenario, oggi,  risultato dei tanti conflitti in corso: sono sempre i piccoli a pagare il prezzo più alto.
Già pubblicato in Italia da Bompiani nel 1953, il libro è disponibile nella ristampa di Nottetempo, con la traduzione di Ginevra Bompiani.
Nel romanzo seguiamo un uomo, un poeta e intellettuale inglese, che va alla ricerca del suo bambino, sorretto da indizi sommari e motivato da un incerto sentimento di paternità. Prima della guerra aveva vissuto a Parigi con la moglie francese, poi lo scoppio del conflitto gli impose di tornare in Gran Bretagna. La moglie diede alla luce un bambino, che l'uomo fece appena in tempo a vedere nella culla, prima della sua partenza. La donna morì poi per mano dei nazisti e il loro bimbo, di due anni, venne affidato ad amici, coinvolti nelle attività della  Resistenza, a loro volta costretti ad affidarlo ad altri. Una catena di aiuti che rende difficile tracciare il percorso  del bambino. Infatti, l'identità della creatura, che gli viene indicata come figlio, non è chiara  e non sono possibili riscontri perché tutti i soggetti a lui legati sono morti o dispersi. 
Allora vediamo l'uomo dibattersi  tra la promessa fatta alla moglie di ritrovare il loro bambino e averne cura e il timore di cambiare le sue abitudini di vita, attestate su una comoda routine, con  tutte le priorità salvaguardate, mentre avverte soltanto una timida tenerezza, che non basta neppure ad abbracciare il piccolo e una voce interiore alimenta il dilemma: e se questo bambino non fosse mio?
Nell'arco di una settimana si snoda il suo percorso di consapevolezza: ricerca, conoscenza del bimbo, tentativi  maldestri di amicizia, riflessioni, ripensamenti,  fino alla sofferta decisione finale. Il protagonista si muove in una cittadina francese semidistrutta e priva di attrattive e le sue azioni sono limitate dall'orario di visita imposto dall'orfanatrofio, sotto la supervisione della direttrice, che lo invita alla prudenza e a non alimentare false speranze nel bambino.
Un finale inaspettato sigilla il romanzo e lo consegna alla nostra memoria.

Little Boy Lost, Marghanita Laski, postfazione di Anne Sebba, Persephone Books, 2001( ristampe fino al 2013).
Il bambino perduto, Marghanita Laski, traduz. di Ginevra Bompiani, Nottetempo, 2005.






lunedì 5 gennaio 2015

bambini e guerra

Anno nuovo, libri nuovi? Non esattamente, questo non è un blog di novità editoriali e i libri, secondo la personalissima e opinabile idea di chi ne scrive qui, sono nuovi persino dopo essere stati già letti, perché può cambiare lo sguardo di chi li rilegge.
Per tornare ai non nuovi libri, due o tre suggerimenti, per anglomaniaci e non solo.
Doreen, della scrittrice ed editrice Barbara Noble (1907-2001) e Saplings, di Noel Streatfeild (1895-1986), la prolifica autrice di oltre ottanta titoli, senza contare i tre volumi della sua autobiografia.
La distrazione che ha permesso agli editori italiani di trascurare la traduzione di questi e altri testi può solo essere stigmatizzata nella forma di una miopia provinciale e, perché no, anche commerciale. Non saprei ipotizzare quale potrebbe essere oggi la loro diffusione e nemmeno prefigurare un loro successo ma, all'epoca della loro pubblicazione (Doreen nel 1946, Saplings nel 1945), almeno il tema della guerra, per citarne uno, poteva essere interessante anche per il nostro Paese.
Forse la spiegazione si deve al fatto che sono entrambi romanzi decisamente legati, quanto a scelte personali, stile di vita e leggi, all'ambiente britannico.
Inoltre un argomento che non ci ha mai toccati, così come la Francia, ma è una ferita ancora aperta per i britannici, è l'Operation Pied Piper, del settembre 1939, un gigantesco piano di evacuazione di tutti i bambini e le bambine londinesi, verso la campagna, per metterli al riparo dall'atteso bombardamento aereo della città che avrebbe causato molte vittime. Un comitato  mise a punto l'operazione senza curarsi di approfondire i danni psicologici che avrebbe provocato, quasi superiori al disastro annunciato, e il disagio dei piccoli venne considerato come un rischio inevitabile. Così bambini e bambine, anche di soli due anni, muniti di cartellino identificativo, furono letteralmente spediti dalla Stazione Vittoria, verso famiglie sconosciute, verso l'ignoto che non avevano gli strumenti per decifrare, con i loro pochi oggetti personali, lo strazio nel cuore e neppure il senso del tempo per collocare un'esperienza che li avrebbe segnati per la vita. Alcuni furono abusati, o maltrattati, sottoposti a fatiche inaudite, altri non riabbracciarono più i loro genitori, rimasero orfani o si persero in un buco nero e non se ne seppe più nulla. Una generazione rovinata ma, per la cultura britannica, in cui l'abitudine prevedeva di mandare i bambini alle boarding school già a partire dai sette anni, non parve, almeno nell'immediato, un problema serio.
Per chi si occupa di educazione, rimane un mistero, uno dei tanti obbrobri generati dalla guerra.
Nei libri che ho citato, il problema della partenza forzata da Londra di migliaia di bambini viene trattato in modo tangenziale, senza analisi politiche e sociologiche, dal punto di vista dei soggetti che lo vivono, in Doreen e da chi lo osserva, da lontano,  in Saplings, con esiti assai diversi.
I due libri non dovrebbero essere identificati con questo unico problema, almeno non Saplings, complesso affresco di relazioni familiari, ma ho scelto di mettere in luce questo aspetto particolare perché è largamente sconosciuto al pubblico di lettori e lettrici del nostro Paese e credo meriti di essere ricordato.
In Doreen troviamo un'assennata bambina che vive con la madre, addetta alle pulizie. Dopo non poche pressioni, perchè la propaganda del piano di evacuazione è notevole, la signora si convince a mandarla presso una coppia di giovani, senza figli, che vivono in campagna. La bambina viene subito circondata da affetto e attenzioni e presto si adegua al comfort inaspettato, tanto da non desiderare più il ritorno a casa, alle  sue modeste abitudini alimentari e abitative. La madre intuisce il problema nella sua portata futura e agisce di conseguenza.
Un romanzo che apre uno squarcio sul problema dell'appartenenza a una determinata classe sociale, in un tempo in cui i confini erano ancora segnati da profondi pregiudizi e il riscatto sociale non era scontato.
In Saplings i fratellini Parker ospitati da una famiglia, a causa della guerra, sono solo un cammeo, volto a sottolineare l'ineluttabilità della sorte che sembra accanirsi sempre sui più deboli e indifesi. La loro vicenda rimane un doloroso sospeso del libro, una lacrima in più, e il romanzo è dominato invece dal naufragare progressivo della serenità familiare dei Wiltshires, a causa dello scoppio della guerra, che impone trasferimenti e poi abbandoni, morte, la divisione dei fratelli tra parenti diversi, nessuno abbastanza generoso da desiderare che i bambini restino insieme. E la madre, una figurina ritagliata nella carta velina, su cui la critica e la stessa autrice si sono accanite descrivendola fragile, indolente, narcisista, dedita al sesso sfrenato per dimenticare la tristezza. Non sono d'accordo neppure un po' con questa analisi perché la donna aveva a cuore i figli, a suo modo,  solo che le persone intorno a lei, volendo aiutarla, sceglievano la soluzione più comoda per gestire il problema, senza una visione che salvaguardasse il nucleo familiare e che avrebbe potuto agire come richiamo di responsabilità anche per la madre.
Una lettura che non lascia indifferenti, in ogni caso.
Un paio di curiosità per alleggerire:
1. Noel Stratfeild viene citata per il suo famoso Ballet Shoes nel film C'è post@ per te (You've got mail), USA 1998, di Nora Ephron con Tom Hanks e Meg Ryan.
2. Nel film Pomi d'ottone e manici di scopa (Bedknobs and Broomsticks), USA 1971, di Robert Stevenson, con Angela Lansbury, la scena iniziale del film vede proprio l'assegnazione di tre fratellini londinesi ad un'aspirante strega causa evacuazione per motivi di guerra. Sembra una scena divertente, e nel film si risolve in modo positivo, ma l'operazione in sé e  la scelta politica che la realizzò, per i bambini furono drammatiche, e il costo umano non è stato ancora pienamente indagato.















Doreen, Barbara Noble, Persephone Books, 2005.
Saplings, Noel Streatfeild, Persephone Books, 2000.