Quentin Blake per Mathilda di Rohald Dahl

martedì 8 dicembre 2020

Da dove viene il vento

 


Una voce narrante cuce tante storie senza un'unità di tempo e di spazio, mala singolarità di Da dove viene il vento, di Mariolina Venezia, appena ripubblicato da La Nave di Teseo, risiede anche nella caratteristica dello specchio.

Scrittrice e sceneggiatrice, Venezia è nata a Matera e vive a Roma, ha vinto il Premio Campiello nel 2007 con il romanzo Mille anni che sto qui e raggiunto una grande popolarità con le vicende televisive di Imma Tataranni, sostituta procuratrice a Matera, personaggia ispirata ai suoi libri Come piante tra i sassi, Maltempo, Rione Serra Venerdì, Via del Riscatto, editi da Einaudi.

Da dove viene il vento è la riscrittura di un suo romanzo del 2011 ripubblicato da pochi giorni dalla casa editrice La Nave di Teseo. Ogni emozione, ogni personaggio, ogni sguardo del libro si rispecchiano in quello dell'altro, in un rimando infinito che va oltre il tempo passato, presente e futuro e riguarda anche il passaggio del vento e il fluire del mare.

Questo è un romanzo composito che si può approcciare come la rete: si cercano e seguono i contenuti che più interessano. Il titolo del romanzo è preso da un'antica fiaba berbera, quella che la nonna di Idir gli raccontava da piccolo e che ora lui regala ad altri, per salvarli dalla disperazione. E la fiaba ritorna sovente nei sogni confusi, sfumati nella realtà terribile della sopravvivenza in terra straniera, scatenati da ferite non curate, dalla solitudine e dai ricordi affastellati della tragedia che l'ha fatto fuggire dal suo Paese alla volta di un'Europa desiderata come la panacea della miseria e dell'ingiustizia.

Anche i sentimenti di Dora si rispecchiano in Salvatore, dopo vent'anni trascorsi in Francia, e ritrovato proprio a Padova, la città in cui entrambi hanno compiuto i loro studi, dove lui si è costruito una vita apparentemente di successo. E Salvatore investe provvisoriamente attenzione in lei, senza però dare spiegazioni e senza progettualità da condividere. Per entrambi è determinante il peso dei ricordi, che influenzano le attese di Dora e si intrecciano ai fallimenti di Salvatore.

Le storie si incrociano e incastrano tra i personaggi, mentre la voce narrante rimanda al lockdown della scorsa primavera, una sorta di confinamento che per la narratrice somiglia, in qualche misura, all'esperienza dell'astronauta russo rimasto per trecentododici giorni nello spazio, tra terra e luna, mentre il suo Paese, l'Unione Sovietica, si dissolveva e mancavano i fondi per finanziare il suo rientro a casa. i pensieri ricorrenti dell'uomo, nello stato sospeso in cui si trova, sono visitati  dalla malinconia, mentre riflette sul tempo e si nutre di capsule e ricordi nella sua «scatoletta di latta». Così, a sua volta, stabilisce un paragone tra sé e Cristoforo Colombo, il navigatore che viveva ogni giorno come una sfida del destino, sperando di vedere infine una striscia di terra all'orizzonte, che lo salvasse dall'ammutinamento della ciurma e dall'angoscia del dubbio.

Ma dov'è il senso delle cose? Come si rintraccia il filo della vita? Come può farlo Idir, reso schiavo in un campo di raccolta dei pomodori e Dora, con i suoi interrogativi senza risposta, e Salvatore stretto fra le minacce degli usurai e una vita che gli scorre estranea davanti agli occhi? E cosa può pensare la piccola Amsah, che canta per farsi compagnia, sola tra i flutti del mare? «Il senso non esiste ma si crea, e la strada contiene in sé la direzione» suggerisce la voce narrante, e poi ancora:«Come una malata in un letto d'ospedale, le storie mi guariscono o mi avvelenano».

Si può trovare la storia dei nostri ultimi decenni in questo romanzo, ci sono gli anni Settanta e la contestazione studentesca negli atenei, l'incerto periodo di riflusso che ne seguì, la caduta delle torri gemelle a New York, la guerra in Iraq, il problema irrisolto dell'immigrazione con l'altissimo costo umano che comporta.

C'è tanto di noi, ieri e oggi, e Mariolina Venezia gioca sul filo sottile e arduo dei sentimenti, con effetti di lirismo puro, senza cadere in facili soluzioni e ricette riparatrici e consolatorie.

E ci sono il vento e il mare, un mare salato che affoga e un mare di lacrime che sorprendentemente consola. Un vento che spinge le nuvole configurandole in forma di Paesi rincorsi, oppure un vento che non spinge le vele perché non arriva mai.

Da dove viene il vento. Il nostro viaggio nel cuore della notte, Mariolina Venezia, La nave di Teseo, 2020.



già pubblicato su:

https://www.heraldo.it/2020/10/24/da-dove-viene-il-vento-in-cerca-del-senso-delle-cose/

lunedì 7 dicembre 2020

La luna e la figlia cambiata


Quante volte è successo, leggendo un saggio, di avere l'impressione di ascoltare la voce di chi ha scritto, soprattutto se si ha avuto occasione di un incontro, ancorché virtuale, con l'autore o l'autrice? Nei romanzi non succede quasi mai. Tanto i saggi risultano didascalici, salvo rare eccezioni come quella mirabile di Virginia Woolf, tanto i romanzi fanno dimenticare gli eventuali spunti autobiografici e non ci si chiede, perduti nella trama,  se la storia sia vera o inventata. Il romanzo poggia su una struttura, si vale di metafore, salti temporali, si nutre di miti, si complica con sdoppiature di personaggi e si vale di stili che attraversano i generi letterari. Il saggio riflette lo studio e la documentazione di un problema fino a un determinato momento storico, invece il romanzo è destinato a durare nel tempo e a parlare sempre in modo diverso a chi legge.

Succede con La luna e la figlia cambiata, il cui titolo evoca immediatamente la novella di Pirandello  Il figlio cambiato (1902), e l'analogia prosegue con richiami al folklore siciliano, ma qui c'è una voce bambina che racconta un'esperienza di rifiuto-accettazione da parte della madre biologica. Non è l'intreccio a inchiodare alla pagina, anche se succede fino all'ultima riga, è piuttosto il dolore che questa bimba cerca di elaborare inventandosi una strategia di fuga per darsi una spiegazione accettabile mentre la sua vita, interrotta da inspiegabili gesti parentali, scorre tra solitudine, malinconia e onde di rabbia adulta, 

Onde che sono anche del mare, vagheggiato e vissuto ora come oblio, ora come distanza dalla rimpianta esistenza "di prima". Un mare che respira (sciatu è il respiro) tra le righe e viene rappresentato graficamente dagli inserti di poesia visiva, in cui l'autrice, Maria Cannata, sceglie un preciso legame tra segno e significato per costruire un testo senza argini e confini.

«Tavola era il mare.

Tavola di metallo grigia e immobile. [...]

Mare e cielo avevano lo stesso colore metallico, una cosa sola se non fosse stato per quel respiro leggero che andava e veniva.[...]

Il mare si era un poco increspato.

Sciatu luntanu.                                    

Sciatu vicinu.

 Il rapporto madre-figlia, sbilanciato dal potere genitoriale, non si nutre di parole ma di azioni, anche violente, giustificate dall'ossessione  della madre per la pulizia e il conformismo alle regole di vicinato. L'assenza di parole, di spiegazioni, costringe la protagonista a trovare un escamotage per tollerare il dolore della separazione da una vita completamente diversa a cui è stata strappata.

«Lina carissima, forse anch'io, senza accorgermene, sono finita in una strana fiaba. Com'è possibile che questa sia la mia famiglia? Io non conosco nessuno. La Madre mi strattona da una parte all'altra del  Cortile, perché tutti mi vedano e loro mi guardano come se invece che una bambina fossi "una cosa strana", venuta chissà da dove. e poi, parlano una lingua che non capisco e quando, come ci hanno insegnato le Zie, dico: "scusi", o "per piacere", "grazie", tutti ridono e si divertono come se vedessero una bambola parlante. Così tengo la bocca chiusa e aspetto che tutto finisca.»  

Nella  vita della bambina la figura di Jana, con le sue storie, come Lunedda e Rosamarina, un toccasana per far sognare i bambini e le bambine del cortile, svolge una funzione regolatrice e salvifica.

«Lunedda era una ragazza molto bella! Ogni giorno davanti allo specchio si guardava il viso di latte, si pettinava i capelli di seta.

La Madre la chiamava: - Lunedda! C'è il pane da infornare! [...]

Lunedda non ascoltava. [...]

Un grido straziò l'aria e fece ammutolire i grilli.

Mille pezzettini di specchio si sparsero per il cielo e mostrarono alla notte il viso bruciato della bella Luna.»

Maria Cannata si è valsa di una lingua arcaica che guarda al dialetto appropriandosene per descrivere meglio una realtà che vive di tradizioni e miti rivisitati, una vita di cortile con la prossimità di personaggi  poveri ma portatori di un sapere antico che prescinde dall'alfabetizzazione.  Il dolore della bambina contagia chi legge ma non lo turba perché  è illuminato da squarci di generosità immensa e prevale infine un  sentimento filiale che riesce a sopravvivere e declinarsi, a sua volta, nel materno.

 

La luna e la figlia cambiata, Maria Cannata, Gabrielli Editori, 2011 (il libro è disponibile sulle piattaforme di acquisto on line).

Maria Cannata nasce a Catania e si laurea in Lettere Moderne, consegue poi la specializzazione in Storia all'Università di Urbino. Segue una carriera di insegnante e un'opera ventennale di promozione culturale svolta come Presidente de Il Circolo della Rosa di Verona. La figlia cambiata è il suo primo romanzo.

già pubblicato su

https://cartesensibili.wordpress.com/2020/11/28/lauradeilibri-laura-bertolotti-la-luna-e-la-figlia-cambiata/