Ci
sono libri che rimangono nell'immaginario e accompagnano le fasi della vita, i
classici libri che si potrebbe scegliere di portare con sé su un'isola deserta.
Famosi e diffusi capillarmente a dir poco, quando non veri e propri generatori
di grandi profitti, grazie a gadget,
riduzioni cinematografiche, trasformazione in graphic novel e quant'altro. Lo si può dire dei romanzi di Jane
Austen, diventata una vera e propria icona pop,
ma il fenomeno riguarda anche Louisa May Alcott (1832 - 1888) e il suo romanzo
più conosciuto, Piccole donne.
In
occasione dell'uscita del film di Greta Gerwig (Warner Bros, 2020) che ne ha
curato anche la sceneggiatura, si sta riscoprendo il romanzo alcottiano. È
almeno il sesto adattamento cinematografico di Piccole Donne, le prime due pellicole mute del 1917 e 1918,
l'indimenticabile Jo-Katharine Hepburn
nel 1933, diretta da George Cukor, la versione del 1949 di Mervyn LeRoy
e infine la più recente, di Gillian Armstrong del 1994, con Jo-Winona Ryder e
Susan Sarandon nel ruolo della madre.
La
regista statunitense Gerwig, che ha un passato di attrice e sceneggiatrice, già premiata per il
precedente Lady Bird, ha realizzato
un nuovo film ispirato al romanzo che,
non a caso, arriva dopo la campagna MeToo
e sottolinea più esplicitamente di tutti
gli altri, la componente proto- femminista della scrittura di Alcott. Inutile
comparare film e romanzo, anche se è operazione quasi immediata e le deviazioni
dal testo risaltano talvolta stridenti e inaccettabili. Eppure questa versione,
la meno vittoriana di tutte, la più chiara e luminosa, con la sua fotografia di
largo respiro, la recitazione impeccabile di attrici e attori, si rende assai
piacevole alla visione e offre la chiave
di lettura più aderente al romanzo, in linea con la critica recente. Infatti, troppo
sovente incasellata nel genere letterario di ambientazione domestica, Louisa
Alcott, detta Lou, sotto l'ambiguità dei toni, dal pedagogico al sentimentale,
non promuove affatto lo spirito di
sacrificio per il ruolo di moglie e madre, suggerisce piuttosto il conflitto
tra lavoro, ambizione, desiderio e disciplina.
Questo
film, più dei precedenti, propone un'immagine di Jo, con le dita annerite
dall'inchiostro, per cui la scrittura è
insieme cibo e amore, e si pone come un
aperto invito a coltivare i propri sogni e interessi, sottolineando le rinunce che attendono le ragazze nella
vita matrimoniale, specie se estroverse e creative. L'unica osservazione che mi
sento di fare attiene all'espediente abusato, almeno nelle fasi iniziali della
pellicola, dei ripetuti rimandi dal romanzo alla vita dell'autrice e
viceversa, creando non poca confusione fra i due piani della storia, per chi non abbia letto il romanzo.
Invece
a lettrici e lettori affezionati di Louisa Alcott il film permette un
ripensamento e una riflessione sulla sua opera letteraria, anche la parte solo
toccata tangenzialmente dalla pellicola. Alcott scriveva sotto la costante pressione dei debiti di
famiglia, essendo cresciuta in un ambiente culturalmente ricco di stimoli
culturali e di relazioni importanti, ma povero di mezzi economici. Fin da
giovane sentì su di sé, più forte di quanto l'avvertissero le sorelle, la
responsabilità di mantenere la famiglia e fece i lavori più vari, tra cui
l'istitutrice, la domestica, l'insegnante,
ma coltivando sempre il piacere della scrittura, a cui si dedicava nottetempo
e anche a scapito della sua salute. Si rese famosa per un libro, Hospital Sketches (tradotto da Sara Grosoli,
L'Iguana, 2018) che raccoglieva, romanzandole, le sue lettere ai familiari,
scritte quando prestava lavoro volontario come infermiera durante la Guerra
Civile. Grazie al discreto successo che
ne seguì, l'editore le chiese allora di scrivere un libro per
"giovinette". Ma Alcott non aveva mai scritto prima d'allora per
l'infanzia e temeva di non saperlo fare, i suoi proventi le venivano da
racconti gotici che pubblicava in forma anonima o con lo pseudonimo A. Barnard,
all'insaputa del padre, di cui temeva l'inflessibile giudizio morale. Non sembri
fuorviante il particolare, perché la situazione familiare di Louisa, non era esattamente
quella che si evince dai romanzi del ciclo della famiglia March, e piuttosto illuminante in tal senso è la
biografia di Martha Saxton (1995, tradotta da Daniela Daniele, Jo March
edizioni, 2019). La biografa, dopo aver letto i diari del padre, della madre,
di Lou e molte lettere, dipinge il ritratto di un padre perso nei suoi studi,
insensibile alle sorti della famiglia, una madre che doveva sopperire a tutto e
le figlie avviate a una vita di lavoro, in controtendenza con i tempi che le
volevano soltanto spose e madri. Si deduce che Alcott scrisse perciò pensando
alla sua famiglia non com'era, ma come avrebbe desiderato che fosse, facendone un ritratto decisamente migliore,
edulcorando il personaggio del padre, riconoscendo gratitudine alla madre, e
assegnando ruoli alle sorelle e a se stessa non strettamente riconducibili alla
realtà della sua vita.
Piccole Donne fu
pubblicato quando l'autrice era ormai trentaseienne, dopo la delusione di un altro romanzo, a lei molto caro, Moods (Mutevoli umori, Boringhieri, 1995) accolto tiepidamente dalla
critica, e si trovava provata nella salute e stremata negli entusiasmi. Il
successo che seguì la colse di sorpresa e la convinse della superiorità dei romanzi
di ambientazione domestico-sentimentale rispetto al genere gotico-romantico che
aveva sempre preferito.
Il
film restituisce un affresco della vita americana ottocentesca, in cui trionfano
la positività dei sentimenti e la soddisfazione di
aver raggiunto i propri obiettivi. E dalla visione si ricava uno
splendido ritratto di giovane donna, Jo, determinata a costruirsi il suo
futuro, facendosi carico delle responsabilità senza rinunciare ai sogni.
Forse è proprio questo il messaggio del nuovo film Piccole Donne: far riscoprire un'autrice che fu sempre saldamente dalla parte delle donne.
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