Ci sono libri che passano
inosservati per anni, non interessano ai loro editori, non vengono promossi, diffusi, cadono
nel dimenticatoio. Ė la vicenda di Stoner,
scritto nel 1965, sebbene salutato come romanzo interessante, ebbe poco
successo e cadde presto nell'oblio. L'autore, John Williams, era a suo modo abituato a questo tipo di
delusioni, un destino simile era occorso ai suoi precedenti romanzi e Stoner era stato rifiutato da ben nove editori prima che la casa editrice Vicking lo accettasse. L'autore si rifugiava nell'alcol, continuava a insegnare e si esprimeva con sincerità solo tra i pochi
amici. Accademico, come il protagonista di Stoner, ebbe il merito di avviare
uno dei primi corsi universitari di scrittura creativa, apprezzato anche come
autore del romanzo che getta una luce completamente diversa sul mito della
frontiera, Butcher's Crossing, aprendo la strada interpretativa poi percorsa da Corman McCarthy in letteratura e
Robert Altman nel cinema. Williams nacque nel 1922, in Texas, andò volontario in guerra e
ne portò le conseguenze psicologiche per tutta la vita, secondo l'ultima
moglie. Si spense nel 1994, in Colorado, per
complicazioni polmonari, dopo aver vinto il National Book Award per il romanzo Augustus, nel 1973.
Con una giravolta della
fortuna, il romanzo si piazzò in pole position dopo la prima ristampa americana
del 2003, da lì cominciò un passaparola che lo rese un romanzo amato e letto e
tradotto. Da noi arriva solo nel 2012, salutato però da consensi eccellenti. La
ragione è spiegata bene nella postfazione di Peter Cameron:
In quelle prime righe trapela l'intera vita di Stoner, una vita che sembra essere assai piatta e desolata. Non si allontana mai per più di centocinquanta chilometri da Booneville, il piccolo paese rurale in cui è nato; mantiene lo stesso lavoro per tutta la vita; per quasi quarant'anni è infelicemente sposato alla stessa donna; ha sporadici contatti con l'amata figlia e per i suoi genitori è un estraneo;[...] Non sembra materia troppo promettente per un romanzo e tuttavia, in qualche modo, quasi miracoloso, John Williams fa della vita di William Stoner una storia appassionante, profonda e straziante.
Si parla infine di
"miracolo letterario", di "segreto", di "una scrittura
senza ego", del "più grande romanzo americano di cui non abbiamo mai sentito parlare" . Nel leggerlo ci si interroga sul perché attragga tanto un
personaggio che, a parte le primissime pagine, viene sempre indicato con il
cognome, che suona simile a stone,
pietra, non è mai coinvolto in alcuna avventura, anzi tormentato da un collega
per tutta la sua carriera lavorativa. Tuttavia le pagine rivelano che William
Stoner è un uomo assai distante dalla
durezza granitica minerale, è un impasto di delicatezza e dedizione, a senso
unico però, perché sembra che la vita
non gli restituisca nulla. Sarà difficile dimenticarlo, Stoner è uno di
quei personaggi che entrano sotto pelle, si insinuano nei pensieri di chi
legge, interrogano sul senso delle cose,
della vita. Forse Stoner, da fallito quale sembra, conclude la sua vita da
vincente perché riesce a essere semplicemente se stesso, senza emulare nessuno
e, al contrario degli eroi, rappresenta l'umanità imperfetta che affronta la
realtà come si presenta, trovando la sua forza nella letteratura.
Facile, troppo facile il
parallelo con l'autore che scelse per sé l'epigrafe:
"Un
eroe è colui che vuole essere se stesso"
ma non ci serve stabilire quanto
autobiografico sia il suo romanzo, non toglie o aggiunge nulla al regalo di
leggerlo.
Stoner, John Williams (traduz. di Stefano
Tummolini, postfaz. di Peter Cameron, traduz. di Giuseppina Oneto), Fazi Editore, 2012.
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