Quentin Blake per Mathilda di Rohald Dahl

sabato 11 novembre 2017

Raccontami tu


Donne che fuggono nella notte o alle prime luci dell'alba, in Raccontami tu, di Maristella Lippolis.  Non hanno un piano preciso per sottrarsi alla violenza o allo sfruttamento, piuttosto un sogno di libertà che si è annidato nella mente e ha nutrito le loro azioni di gesti apparentemente sicuri, ma chi può stare tranquillo? Non loro, guidate solo da un istinto protettivo verso le creature disarmate che trascinano nella loro impresa. 
Una scappa per mettere centinaia di chilometri di distanza da un uomo che l'ha segnata nel corpo e nello spirito, scappa con la sua bimba, un fagottino addormentato sul sedile accanto a lei, guida concentrata, lottando con il sonno, sull'autostrada come un nastro d'asfalto, senza osare superare la fila interminabile dei camion, dalla Liguria a Pescara, deve farcela, non può fermarsi. 
Un'altra deve decidere in fretta, in una città che non conosce neppure, fuori da quell'appartamento in cui è prigioniera, cambiare aspetto per far perdere le sue tracce, svegliare e convincere alla fuga quell'inerme adolescente, prima che sia troppo tardi, prima che le facciano altro male. «Il lungo addestramento a guardarsi agire dal di fuori, come se quella non fosse lei ma un'altra di cui osservava la vita con indifferenza, l'ha protetta quando era esposta per strada, e adesso le impedisce di pensare con angoscia alla propria situazione. È arrivata fin qui, se la caverà, finora se l'è sempre cavata».  Sorretta da una fiducia impensabile, mette in sicurezza la ragazzina e si affida all'unica persona, fuori dall'organizzazione che, forse, potrebbe aiutarla.
Donne in difficoltà che si incontrano perché i loro percorsi sono stranamente intrecciati, ma soprattutto perché sono solidali, fiutano e riconoscono la paura dell'altra e si aiutano. Colgono quella  luce negli occhi che fa cadere le difese, fa svelare da dove vengono, che cosa rincorrono, mette a nudo la solitudine a cui il dialogo con un'altra donna giunge come una medicina, una pozione che scalda il corpo e fa intravedere una qualche soluzione. «È abituata ad ascoltare le storie degli altri, e non sono mai facili, ma questa l'ha colpita in maniera diversa [...]Di solito le storie che ascolta la sfiorano, le entrano in testa e poi si allontanano, finiscono nell'archivio delle vite che aspettano una soluzione e quasi mai è compito suo trovarne una. Ma questa, questa sta trovando velocemente una saldatura dentro di lei, e Valentina sente che diventerà uno dei suoi pensieri quotidiani». Sono donne che non esitano a violare tutte le regole, a mettersi in contrasto con i colleghi, con i compagni, a rovinare vacanze per inseguire un'idea che potrebbe rivelarsi salvifica.
Donne che scrivono lettere, ma solo nella loro mente, «ti sto scrivendo questa lettera nella mia testa perché ho bisogno di parlare con qualcuno anche solo per finta, altrimenti non riesco a capire se questa vita mi sta davvero accadendo». Scrivono perché non possono fare altrimenti, ma troppo difficile raccontare quello che succede, il lavoro umiliante, l'isolamento, meglio far credere una pietosa bugia di raggiunto benessere. «Cara sorella, ecco qui un'altra lettera che ti scrivo solo nella mia mente, come le altre. Ma questa volta non mi serve per fare finta di parlare con qualcuno e mettere tutti i miei pensieri in fila, ma per prepararmi a parlarti davvero.[...] Chissà se è questa, alla fine, la libertà, questo camminare da sola senza preoccuparsi che qualcuno ti riconosca».
Donne generose che condividono casa, abiti  e progetti di vita, individuano risorse tra i problemi delle altre, se ne fanno carico per un'esistenza con un ordine nuovo, rispondente a desideri archiviati, in bilico tra novità e tradizione, natura e affetti. "Naturalmente a casa di Alice", si chiamerà il "posto", «mancava il nome, e quindi un'identità» e «i nomi devono corrispondere alle cose», e questa è proprio "casa" di Alice, un luogo che le somiglia, pensato per poter leggere e riflettere insieme sul cibo, sulla vita,  arredato in modo gioioso, completo di belle tazze per sorseggiare tè e tisane.
Sono tante le donne in dialogo costante, reale o immaginario, con ruoli, età e condizione diverse che Maristella Lippolis fa sfilare, vibrare e parlare nel suo libro, il cui esergo è tratto da La mia Africa di Karen Blixen «Quando il disegno della mia vita sarà completo, vedrò, o altri vedranno una cicogna?*», che Adriana Cavarero, in un suo saggio, riscrive così «il percorso di ogni vita si lascia alla fine guardare come un disegno che ha senso?[...]C'è un'etica del dono nel piacere del narratore. Chi narra non solo intrattiene e incanta, come Sheherazade, ma regala ai protagonisti delle sue storie la loro cicogna». Il racconto di Caterina, Valentina, Marta, Dina, Alice, Bianca, Alma, Maria diventa trama, intreccio, relazione, un invito alla sorellanza, o un dolce ma determinato manifesto programmatico: insieme possiamo farcela, possiamo passare dal desiderio al disegno.

Raccontami tu, Maristella Lippolis, L'Iguana Editrice, 2017.



Raccontami tu, Maristella Lippolis, L'Iguana Editrice, 2017.
Tu che mi guardi, tu che mi racconti. Filosofia della narrazione, Adriana Cavarero, Feltrinelli, 1997.
*Le grafie della cicogna. La scrittura delle donne come ri-velazione è stato un convegno del 2010 promosso dal Forum d'Ateneo per le politiche e gli studi di genere dell'Università di Padova, coordinato da Saveria Chemotti, Adriana Cavarero vi tenne la lectio magistralis proprio su Il desiderio di racconto.

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Leggere Donna n°178/2018

sabato 4 novembre 2017

E Oltre





Il regalo di un amico, un bozzetto scelto dalla sua collezione, raffigurante una donna  «seduta con le mani incrociate sul grembo, alla Cézanne» fa compagnia a Patrizia Castagnoli per anni e infine scatena la sua fantasia sulla mano che l’ha tratteggiato. Così comincia la sua lunga ricerca sulla vita e le opere di Ernesta Oltremonti e, da subito, emerge la presenza della pittrice a quattro Biennali veneziane, tra il 1924 e il 1930 e poi a tre Quadriennali romane, dal 1931 al 1939. Nata  a Venezia nel 1901 e morta a Roma nel 1982 in circostanze che attirarono l’attenzione della cronaca, secondo cui avrebbe aiutato la sorella a morire, l’autrice trova innumerevoli difficoltà nel ricostruire l’educazione e formazione della pittrice. Inizia  ripercorrendo i luoghi in cui abitò,  Venezia, Firenze, Roma e Parigi. Dai suoi vagabondaggi novecenteschi a Parigi, nel clima artistico degli anni Venti , proviene una fotografia legata a un articolo dove si parla di lei, datato 14 gennaio 1930, dal titolo Tra gli stranieri a Parigi e come sottotitolo M.lle E. Oltremonti artista pittrice. In esso  è sottolineata la capacità costruttiva delle sue opere, l’eleganza del disegno e i colori dei paesaggi, «un tratto vigoroso poco comune in una donna, ha una visione chiara e sincera. Un disegno solido fissa le masse architettoniche e la poesia canta la gioia di dipingere di questa artista italiana». Una traccia importante pare essere il suo rapporto con il pittore Emilio Notte, del cui legame Castagnoli dice «sia stato per la pittrice la storia di un connubio artistico e probabilmente, dopo l’arte, la passione più travolgente».
 A ritroso nel tempo, per inseguire rari segni, o potremmo dire, sfumature, della pittrice, il percorso di Castagnoli si  inceppa e progredisce tra mille dubbi e congetture.  Ernesta si trasferì da Venezia per sottrarsi alle malelingue perché la città non le aveva mai perdonato la relazione con Emilio Notte, suo maestro e uomo sposato? Fu questo il motivo per cui venne osteggiata nell’ambiente artistico? Abitò a Parigi in rue de la Grande Chaumière 15, dove si trovava anche Gauguin, al numero 8, e Modigliani vi aveva il suo atelier, nella stessa strada esisteva già dal 1902 l’Académie de la Frande Chaumière, frequentata da molte artiste straniere, tra cui Tamara de Lempicka. Come mai Ernesta abitava proprio in quella via, era forse allieva o insegnante dell’accademia? E la casa di via Verdi 100, a Roma, fu scelta per la somiglianza con quella veneziana di Calle Vitturi, dove nacque? E ancora, quanto le apparteneva il titolo nobiliare di contessina con cui talvolta viene indicata? Il racconto della nostra autrice è una sorta di cronaca diaristica, tra lettere, indirizzi di vecchie case dove gli occupanti non ricordano chi li abbia preceduti e poi testimonianze degli allievi e delle allieve.  A un certo punto, infatti, Ernesta Oltremonti sembra rinunciare alla pittura, attorno agli anni Quaranta, e dedicarsi esclusivamente all’insegnamento e non sono chiari i motivi per cui compì  tale scelta anche se pare verosimile la necessità di provvedere al sostentamento della famiglia.
Castagnoli scrive decine di mail e lettere, si reca personalmente nei luoghi visitati dalla pittrice, non si rassegna né scoraggia davanti alle dimenticanze delle persone interpellate e accenna, senza sollevare troppi dubbi, alle ultime persone che l’accudirono e poi entrarono in possesso dei suoi averi. La sua sembra essere una condivisione empatica, con l’ipotetico lettore o lettrice, della vita segnata dall’arte, dal talento e dal desiderio di smarcarsi da un destino femminile prefissato, quale fu quella della pittrice. Ci spiega che le opere di Ernesta Oltremonti «appaiono immediatamente comprensibili, ma un attimo dopo ti accorgi che non c’è nulla di scontato, esiste una regia nel disegno compositivo che crea l’intima armonia di un’immagine mentale». E per la sua Adamo ed Eva «Di buffo non c’è proprio niente nel dipinto, anzi direi che l’artificio del manichino trasformato in forme umane è perturbante nella sua epidermica metamorfosi». Una pittrice in cui si avverte la lezione di Cézanne e la «luminosità lagunare» e si colgono «equilibri formativi di piani molto calcolati, proporzioni che cercano l’armonia nell’essenza degli oggetti».
E. Oltre, il titolo del libro di Catagnoli, è anche la firma di Ernesta Oltremonti, come appare in molte sue opere e come si ritrova anche nei registri della scuola romana dove insegnò. Forse una cifra della sua vita, una misura oltre le convenzioni, oltre i condizionamenti culturali e artistici, per restare «fedele solo a se stessa, alla sua dignità».



E Oltre. Sulle tracce di Ernesta Oltremonti, Patrizia Castagnoli, Luciana Tufani Editrice, 2016.


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martedì 19 settembre 2017

Felicità






«Sulla felicità avrei molto da dire. Per questo ho scritto un libro» dichiara Marika Borrelli e, nel suo #Felicità, si possono davvero scoprire molte declinazioni del termine, citazioni filosofiche dagli stoici, epicurei e cinici, incursioni nella meccanica quantistica, sconfinamenti nella musica leggera e contaminazioni interculturali. E poi liste di consigli, suggerimenti, rimedi per la (rin)corsa verso questa specie di Santo Graal della nostra epoca.
Che sia un polpettone, un pamphlet come ce ne sono tanti in circolazione su un tema modaiolo, «un’ossessione ricorrente, specialmente giornalistica, specialmente estiva»?
No, non ne sarei arrivata al termine perché frequento altre letture, è piuttosto un libro spassoso, e sottolineo spassoso, che racconta e racchiude una disamina per nulla superficiale sulle credenze, anche contraddittorie, intorno a un argomento tipico della nostra società, più o meno benestante, annoiata, ansiosa.
Ma dove si trova o si potrebbe trovare la felicità per l’autrice? Semplice, nelle piccole cose, come scrive Lou Marinoff nel suo Platone è meglio del Prozac ed è anche inutile cercare una definizione esaustiva di felicità perché essa «assume tanti aspetti quante le antropologie e le filosofie umane». Pertanto ai Norvegesi sembra tale lo utepils (bere una birra molto ghiacciata); per i Tedeschi è la Heimat (l’attaccamento orgoglioso alle proprie origini geografiche); i Filippini la chiamano gigil (pizzicottare qualcuno per gioia/amore/affetto) e i Danesi hanno l’higge, diventato fenomeno di costume esportato dai media. Si pronuncia /hiùgaal/ precisa Borrelli, con l’h aspirata e significa comodità, uno stile di vita felicitante che prevede coccole, babbucce di lana, caminetti accesi e candele profumate. Ma anche l’higge ha il suo lato oscuro quando allontana originalità e creatività come se fossero minacciose e, per noi italici, abituati a sole e luce, l’autrice ne vede l’applicazione solo «nei giorni di neve o di grandi e fredde piogge».
Molto diversa l’accezione di felicità che si evince da Kant, come di “dovere” e quella di Schopenauer, come “chimera” perché solo sofferenza e dolore sono reali, per tacere di Aristotele «per il quale l’assenza di dolore è già felicità, anzi è l’unica felicità».
La sag(r)a di Borrelli, lei stessa gioca sul termine, si sviluppa in sessantotto capitoli, accostando, tra l’altro, anche la social-felicità, ovvero il rispecchiamento nei social network, dove è obbligatorio sembrare felici, perché l’infelicità è contagiosa e più difficile da gestire. E ammonisce Seneca: «Nessuno è infelice se non per colpa sua», nella sua visione è contemplato il raggiungimento in solitaria della suddetta, quasi fosse una cima, «praticando virtù ed eliminando i desideri», con l’aggiunta dell’atarassia, ovvero la sospensione del giudizio, senza il quale non ci si impegola in complicazioni che minano la nostra serenità.
Sembra prevalere, secondo l’autrice, una concezione “proprietaria” della felicità, o “euforica”, secondo la quale «si è felici se si ha/ottiene qualcosa», invece lei ci propone  un rovesciamento: considerarla sotto forma di senso e significato, differenziando tra quella “edonistica”, o del piacere personale, ed “eudaimonistica”, che implica vivere bene con gli altri. «Felicità come fiume significa che esiste ed esisterà un flusso (variabile) in cui essere immersi». E poi «fare è essere […] L’abilità in qualcosa porta felicità, e l’attività produttiva rende una soddisfazione immediata, come fare marmellate, palleggiare a basket, o coltivare zucchini». Mentre il «non saper fare o il non sapere tout court conduce a una perdita di controllo […] sulle cose» e produce «ansia e inquietudine».
Ammessi gli errori perché «sbagliare è un dono prezioso», ma le «scuole italiane non rendono felici. Non gli studenti, tantomeno gli insegnanti», a differenza del modello scolastico finlandese, improntato a considerare la scuola «il posto dell’anima».
Anche il lavoro, di per sé, non assicura automaticamente la felicità, ci sono mestieri più “comburenti” di altri (nel senso del burn out) e poi c’è la faccenda di quanto si guadagna, ma la via d’uscita potrebbe essere reinventarsi un altro se stesso: Franz Kafka era un assicuratore, per esempio, Einstein lavorava all’ufficio brevetti. Del resto non era Aristotele che affermava: «lo scopo del lavoro è semplicemente quello di guadagnarsi il tempo libero»?
Praticamente, per orientarsi nella baraonda di tendenze, concezioni, mode e guru del caso, Borrelli salva sempre e comunque l’ironia «non il sarcasmo», perché «la felicità intesa come obiettivo è un disastro» quindi il consiglio è di lasciare  che le cose capitino e «never feed the trolls», cioè non curarsi troppo dei giudizi negativi, che “infelicitano”.
Non paia una sintesi semplicistica, au contraire l’autrice squaderna una miriade di possibilità e itinerari, lasciando trapelare molte possibilità di riflessione, a seconda dei propri valori di riferimento.
Quanto al cibo, non nega che abbia molto a che fare con la felicità «perché è un efficace antidepressivo». In proposito, ci confessa un suo dubbio amletico circa la torta di mele (!). Si chiede, in buona sostanza, quale sia “la” torta di mele per eccellenza: quella “sgonfiotta” di Nonna Papera (apple pie), l’impasto onnicomprensivo tipo ciambellone con le mele tagliuzzate dentro, oppure la pasta frolla ricoperta di mele e gelatina?
Non mi intendo di felicità, almeno non nel senso colto dell’autrice, ma sulla torta di mele la so lunga e posso azzardare che vanno bene tutte, e tutte possono fregiarsi del nome “torta di mele”, a seconda dei gusti, dell’umore e dell’abilità di chi le prepara. Proprio come suggerisce l’autrice tante sono le strategie per inseguire, riconoscere e godere della felicità.

#Felicità, Marika Borrelli, L'Iguana Editrice, 2017.

pubblicato su 
Leggere Donna n°177/2017

https://cartesensibili.wordpress.com/2017/11/28/lauradeilibri-laura-bertolotti/



mercoledì 13 settembre 2017

La città interiore



Un libro labirintico, a dir poco, facile perdersi nella ridda di nomi, utile rileggere e soffermarsi ne La città interiore di Mauro Covacich, finalista nel Premio Campiello 2017.
Romanzo? Forse. Lo definirei narrazione non narrativa di incontri avvenuti  in un tempo altalenante fra ieri e oggi, un secolo fa e ancora prima. Il nonno e il padre, gli amici, la nonna e la mamma «Quando mia madre è rimasta vedova era ancora identica alla ragazza del Paradiso, poi sono venuti a visitarla i fantasmi e la ferma decisione di invecchiare un anno al giorno». Gli studi, esilarante l’episodio del suo mancato esame con Magris. E poi la foiba.
La città interiore è davvero un viaggio nel rimosso e rimovibile di ognuno di noi, sicuramente dell'autore, che ci traghetta in un angolo di mondo percorso da confini tracciati con la matita e il sangue delle guerre. Usa una lingua sapiente, ma apparentemente dimessa, richiamandosi alla letteratura minore, come è stata definita da Gilles Deleuze e Félix Guattari, nel senso di far un uso minoritario di una lingua maggiore. Covacich ricorda Kafka, che scriveva in tedesco, in un paese di parlanti il ceco, e Svevo, che scriveva in italiano ma parlava italiano nella vita di tutti i giorni.
«Anche quando trovi casa nella scrittura, la lingua in cui scrivi è lì a rammentarti che non sei a casa tua. È un disagio di cui però puoi far tesoro. Vivere la sensazione vaga e persistente di essere un intruso nel proprio cervello».
Falsa modestia? No, asciuttezza triestina, direi. Certo è che l’equilibrio del racconto tra narrazione storica e ricordo/impressione personale non viene mai meno. La sensazione prevalente è di un’armonia che connette immaginazione e memoria, che si tratti dell’appartamento in ristrutturazione, del viaggio, degli incontri. Su tutto, come un centro gravitazionale, Trieste, da cui i triestini,  le identità confuse, celate, sconosciute, la Slovenia e la Croazia.
«Noi apparteniamo alla gente germinata nei conglomerati di periferia-non alveari, bensì termitai […]. Quartieri distanti uno sputo dal centro, eppure inesorabilmente consegnati a un’altra visione del mondo […] i miei compagni di classe e di università, che avevano sempre un nonno che parlava con naturalezza in greco o in tedesco […]. Ragazzi col doppio cognome, spesso di origine ebraica, che vivevano in via Rossetti o sul colle di S. Vito e nei loro appartamenti pieni zeppi di libri avevano la stanza per la domestica. E in casa parlavano in lingua, come ancor oggi si usa dire invece che in italiano, a marcare con un’espressione così curiosa la distanza dal dialetto».
A prescindere da quanto voglia farne parte, la città interiore di Covacich si compone di un intreccio inestricabile di lingua, storia, luoghi e persone sotto il «culto di un passato comune, una specie di coperta asburgica».


La città interiore, Mauro Covacich, La nave di Teseo, 2017.

lunedì 11 settembre 2017

Qualcosa sui Lehman


Settecentosettantatre pagine intimidiscono, non c'è dubbio, scomodo portarsele in viaggio e in spiaggia. Che si tratti di un coffee table book? No, Qualcosa sui Lehmann non dispone di illustrazioni e fotografie tali da attrarre la curiosità dei distratti "sfogliatori" di casa o di passaggio in qualche sala d'attesa. Eppure il ponderoso volume di Stefano Massini, finalista al Premio Campiello 2017, non sfigurerebbe su qualche tavolino e spopolerebbe nei reading perché dispone egregiamente alla lettura ad alta voce. Intanto, è spassoso, grazie all'apparente leggerezza, è ricco di humour sottile, e poi è una ballata, perciò la lettura  corre spedita e veloce incalzata dal ritmo, dall'effetto sorpresa, dalle ripetizioni incrociate e sorprendenti, persino dall'evidenza matematica, reale o fasulla, di certe affermazioni funambolesche e furbissime.
Ma è un romanzo? Così è scritto in copertina, certo è che la narrazione si sviluppa in modo lineare raccontando la storia di una famiglia ebrea dalla metà dell'Ottocento alla seconda metà del Novecento, ma la formula linguistica scelta dall'autore  ricorda più l'Odissea che I miserabili e, per quanti conoscono fortuna e fine in bancarotta di Lehman Brothers, questa lettura sarà una piacevole scoperta.
Il ventiquattrenne Heyum Lehmann (con due "n", detto "la testa") sbarca sul molo number four di New York dopo quarantacinque giorni di traversata. Partito da Rimpar, Baviera, con la benedizione del padre, allevatore di bestiame, perché faccia fortuna e torni con molto denaro, si imbarca a Le Havre per un viaggio che lo trasforma da timido astemio a bevitore e campione di scommesse, con la convinzione di conoscere il mondo, «Baruch HaShem!» (Grazie a Dio!). Subito la semplificazione del nome in Henry e la cancellazione di una enne nel cognome e poi via, lontano dal freddo newyorkese, troppo simile a quello in Baviera, comincia con un emporio di tessuti e articoli vari a Montgomery. Raggiunto poi dai fratelli Emanuel ("il braccio") e Mayer ("la patata"), insieme creano l'avventura commerciale e finanziaria di cui si conosce. Sovrapponendo le loro vite per poco, e facendo succedere figli e nipoti, dall'Alabama arrivano a New York, passando dal commercio del cotone all'alta finanza, provando e riuscendo a fare affari con il caffè, il carbone, le ferrovie, l'arte e il cinema, alternando successi e rovinose perdite, come nel disastro del 1929. Una storia di famiglia dove le donne sono figurine ritagliate che vanno giusto bene per dare eredi e proseguire la dinastia, scelte in ragione della loro modestia e della famiglia di provenienza.
Eppure, ancorché romanzata e, probabilmente, resa con ironica bonomia, rimane una storia vera e dentro c'è tutta l'imprenditorialità geniale del mondo ebraico, la genesi dei self made men americani e la storia stessa degli Stati Uniti che si fanno caput mundi, o ci provano.

Qualcosa sui Lehman, Stefano Massini, Mondadori, 2017.

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domenica 10 settembre 2017

L'Arminuta




L’Arminuta, la ritornata, è una bambina di tredici anni che arriva-ritorna nella sua cosiddetta famiglia con una grossa valigia e un grumo di sconforto che le attanaglia il cuore. I genitori che l’hanno concepita, per una sorta di analfabetismo affettivo, l’hanno affidata a una cugina, con la promessa, poi disattesa, di mantenere un rapporto di qualche tipo. Senza andare troppo lontano e scandalizzarsi come fosse cosa d’altri tempi e d’altri luoghi e culture, fino a qualche decennio fa era uso abbastanza comune “cedere” un proprio figlio o figlia, se indigenti, a una famiglia più abbiente che se ne volesse occupare. Una pratica che non era sconosciuta nelle campagne e nelle periferie povere del nostro Paese.
«Nel mese dello svezzamento le due famiglie si erano spartite la mia vita a parole, senza accordi precisi, senza chiedersi quanto avrei pagato la loro vaghezza».
È la storia che narra Donatella Di Pietrantonio nel romanzo che si è guadagnato il Premio Campiello 2017, L’Arminuta, inchiodando chi legge alle pagine, perché scritto in una lingua speciale, fatta di carne e sangue. La carne di una bambina che soffre un doppio abbandono, il sangue-dolore di chi deve rinunciare, senza alcuna spiegazione, ai suoi affetti, alle sue amicizie, alle abitudini fatte di norme e piaceri per essere scaraventata in una famiglia estranea, in una casa affollata e povera, senza neppure un letto tutto suo, circondata da sconosciuti che dicono essere suoi  fratelli e genitori, senza volerlo, senza volerla. Solo Adriana, sorella inaspettata e generosa, la protegge e le insegna a muoversi in quell’inspiegabile fiume di emozioni in cui è stata gettata.
«Ogni sera mi prestava una pianta del piede da tenere sulla guancia. Non avevo altro, in quel buio popolato di fiati».
Solo dopo molto tempo riesce a capire perché la madre adottiva l’ha "restituita" e il motivo non salda la ferita, la riapre in un turbine di domande senza risposta. È un libro che fa riflettere sul senso stesso di adozione, prevalentemente vissuto come risposta a un bisogno di genitorialità, senza considerare l’altro soggetto: la creatura, la vita in gioco di una bambina, un bambino che non può essere rimandato indietro, come posta indesiderata, come una maglia troppo stretta.
«Non l’ho mai chiamata, per anni. Da quando le sono stata restituita, la parola mamma si è annidata nella mia gola come un rospo che non è più saltato fuori».
Eppure questa madre, con i suoi limiti, risulta meno crudele dell’altra. Leggere per scoprire come abbandono, sorellanza, resilienza si fondono in un libro di cui non ci si dimentica facilmente.

L’Arminuta, Donatella Di Pietrantonio, Einaudi, 2017.

Una recensione de L'Arminuta è pubblicata su




Premio Campiello 2017


Premio Campiello 2017

Al vaglio della Giuria dei Lettori (282 voti pervenuti su 300), si aggiudica il Supercampiello il romanzo
L'Arminuta, Donatella Di Pietrantonio, Einaudi.

A seguire, le recensioni dei primi tre libri classificati:
L'Arminuta, Donatella Di Pietrantonio, Einaudi, (con 133 preferenze).
Qualcosa sui Lehman, Stefano Massini, Mondadori, (99). 
La città interiore, Mauro Covacich, La nave di Teseo, (25).

Gli altri libri della cinquina:
La ragazza selvaggia, Laura Pugno, Marsilio, (12).
La notte ha la mia voce, Alessandra Sarchi, Einaudi, (13).
Con la discrezionalità che mi posso permettere (!) ho modificato l'ordine degli ultimi due libri perché, a mio sindacalissimo parere, il romanzo di Pugno è nettamente superiore all'altro.

A Rosetta Loy va il Premio Fondazione Campiello alla Carriera.
il Campiello Giovani 2017 ad Andrea Zancanaro con il racconto Ognuno ha il suo mostro.

Di solito, in questo ambiente, preferisco dare risalto ai testi, rispetto ad autori e autrici che già occupano, del resto, le pagine delle riviste e il web, ma qui faccio un'eccezione per Donatella Di Pietrantonio, conosciuta come autrice di Mia madre è un fiume (Elliot 2011), che avevo recensito su Combonifem Magazine.



mercoledì 23 agosto 2017

Di là dall'acqua


Avevamo lasciato Jacopo Zambon con un caso chiuso e risolto e quasi lieto dei suoi affetti, lo ritroviamo coinvolto in un'indagine che mette in gioco anche la memoria della sua città. In Di là dall'acqua, di Elisabetta Baldisserotto,  siamo sempre a Venezia e come dubitarne? Dalle prime righe si è cullati dall'acqua dei canali e dalla lingua dolcissima che indugia in felici espressioni dialettali. La prosa dell'autrice sembra qui più matura, armoniosa e, a tratti, malinconica perché allude o sottolinea il dolore.
Questo nuovo romanzo di Baldisserotto sembra concepito come parte di una "serie", nel significato che attribuiamo alle più famose e seguite serie televisive: ogni episodio è autonomo e, nello stesso tempo, c'è un sottofondo che si sviluppa, in cornice, fino a diventare la vera storia delle storie.  Vediamo appunto il commissario Zambon con l'evidente peso dei suoi ricordi, del suo lutto da elaborare e i richiami al precedente Morire non è niente sono  tra le righe e percepibili nei suoi gesti di space clearing.
"La fase acuta era passata, ma ancora oggi non poteva ascoltare Dylan, -He was a friend of mine-, senza piangere".
 "Di là dall'acqua", a Venezia, si emarginavano i pazzi, i folli, i matti quando ancora doveva soffiare il vento nuovo della psichiatria e proprio in quel luogo denso di memorie e tristezza, l'isola di San Servolo, sede del grande e ormai vuoto Manicomio Centrale delle Province Venete, si tiene ora un convegno di psicanalisti nel nuovo centro congressi con annessa foresteria. Grandi nomi di studiosi raccolti a presentare le loro visioni e strategie di cura e ci scappa il morto.
Niente è mai perfettamente lineare, persino le relazioni tra psicanalisti sono complesse e contemplano ammirazione e stima insieme a rivalità e sottili gelosie.
Un'altra sfida per il nostro commissario che l'autrice ci mostra  oscillante nella sua ricerca di una qualche serenità personale, eppure capace di risolvere questa non semplice situazione che lo vede, tra l'altro, fronteggiare la sua stessa analista. Jacopo Zambon capisce subito "che la pace ovattata in cui aveva vissuto nelle ultime settimane era finita". Con un tratto unico scova testimoni, raccoglie confidenze, scatena ricordi nelle persone più impensate, camminando con gli stivali di gomma, per l'acqua alta, tra pasticcerie, calli, squeri e la barca, perché "barca xe casa [...] c'è tutto quello che serve in quel guscio galleggiante".
Si diceva del dolore ed è proprio il prezzo che si paga, talvolta, per essere ribelli, al di fuori degli schemi e persino la vendetta, anche dopo tanti anni, può essere ispirata dal dolore, basta solo che qualcuno predisponga ogni cosa per rendere il compito facile, almeno in apparenza.

Di là dall'acqua, Elisabetta Baldisserotto, Cleup,2017.

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lunedì 24 luglio 2017

Un inverno a Maiorca


Maiorca, definita comunemente "la perla del Mediterraneo", ideale come località in cui svernare o trascorrere una vacanza in tutta comodità non era esattamente tale nel 1838, quando George Sand la scelse per un soggiorno con i due figli e l'amico Fryderyk Chopin. Ne racconta nel suo Un inverno a Maiorca, recentemente pubblicato, per la prima volta in italiano, da L'Iguana editrice, con una traduzione accurata e corredato di una postfazione, a cura di Cinzia Bigliosi, che posiziona il testo nella vita dell'autrice.
Chiacchierata, la scrittrice George Sand, nom de plume di Amandine Lucie Aurore Dupin, era separata dal marito ed ebbe amanti famosi come De Musset e, appunto, Chopin. Autrice prolifica che vede, ai giorni nostri, piuttosto dimenticate le sue opere, anche se viene ancora indagata la sua vita per l'anticonformismo che la distinse, come il vezzo di vestire da uomo e fumare sigari e per il suo occuparsi di politica, territorio esclusivamente maschile a quel tempo, accarezzando un raffinato ideale socialismo.
A tratti didascalico, come una vera e propria guida di viaggio, Un inverno a Maiorca si presenta infarcito di osservazioni personali sugli abitanti, i Maiorchini, poco avvezzi ai turisti e accoglienti solo a parole. Un vero e proprio trattato che spazia dalla natura del paesaggio alle bellezze architettoniche del luogo, ma a renderlo interessante e guadagnargli un posto di rilievo nella letteratura odeporica sono le notazioni che rivelano di Sand uno spiccato senso di adattamento e il gusto dell'avventura, non meno di quello della scrittura. L'autrice vorrebbe mantenere il suo racconto su un piano impersonale, ma ammette che l'«-io e noi- è la -soggettività- fortuita senza la quale -l'oggettività- maiorchina non si sarebbe affatto rivelata».
Era partita apparentemente nel desiderio di far cambiare aria al figlio e, nel contempo, assicurare a lui e alla figlia, continuità negli studi, perciò portandosi appresso libri e quant'altro. Al viaggio si era aggregato Chopin, ma il soggiorno nell'isola risultò assai gravoso per lui, e nondimeno per loro, a causa della sua malattia e della mancanza di cure adeguate, irreperibili a Maiorca.
L'isola era spazzata dai venti, con una temperatura variabile ma tendenzialmente bassa, senza «una sola strada, un solo sentiero praticabile» che le conferiva «un'aria di abbandono» e si può immaginare quale sia stato il problema di farvi pervenire un pianoforte, indispensabile a Chopin per comporre quei Preludi che, da soli, bastano a decretarne la grandezza. A Palma bisognava «essere raccomandati e presentati a venti delle persone più autorevoli, e attendere parecchi mesi per sperare di non dormire in aperta campagna». Trovarono perciò con difficoltà una sistemazione abitativa, adattandosi a vivere senza i mobili e gli accessori a cui erano abituati e trasferendosi poi in una «pittoresca certosa» da cui si dominava il mare. Un luogo «immenso» dove «c'è tutto e l'arte non può aggiungervi niente».
Nonostante le stranezze degli abitanti e gli infiniti problemi legati alla carenza di cibo e alla salute di Chopin, Sand sarebbe stata propensa a trattenersi sull'isola che considerava una sorta di buen retiro perché «la Svizzera e il Tirolo non hanno avuto per me questo aspetto di creazione libera e primitiva che mi ha tanto incantato a Maiorca». Un atteggiamento conseguente alla sua  motivazione a quel particolare viaggio che rispondeva a «un bisogno di riposo» in un luogo «silenzioso, isolato, dove non avrei biglietti da scrivere, né giornali da scorrere, né visite da ricevere».
Il libro si dilunga in modo interessante anche sui problemi economici dell'isola e sul loro risvolto nel carattere degli abitanti, ma è altrettanto prezioso per le osservazioni dell'autrice sulla natura intrinseca del viaggio, sulla spinta ad abbandonarsi a «questo piacere dispendioso, faticoso, talvolta rischioso e sempre disseminato di innumerevoli delusioni».  Per sé, George Sand ammette che «di tutti gli aspetti che assume l'ideale (o, se questa parola vi infastidisce, il sentimento del "meglio"), il viaggio è uno dei più divertenti e dei più fallaci». E ancora «Non si tratta tanto di viaggiare quanto di partire: chi di noi non ha un dolore da cui distrarsi o un giogo di cui sbarazzarsi?»

Un inverno a Maiorca, George Sand, L'Iguana Editrice, 
https://cartesensibili.wordpress.com/2017/04/28/lauradeilibri-laura-bertolotti-un-inverno-a-maiorca/


Damasco

Damasco

La Grande Siria, che comprendeva fino al 1946 anche Libano, Palestina, Israele e Giordania, è il teatro del romanzo Damasco, di Suad Amiry. Con un respiro temporale che va dal 1926 ai giorni nostri, presenta un affresco umano e ambientale che ci porta lontano dalla situazione devastante e devastata della Siria come appare oggi. Al contrario, si entra e respira nel tranquillo palazzo signorile della famiglia Baroudi, nel cuore di Damasco, una casa protetta da «un gigantesco portone» che precludeva agli estranei «le vicende, gli accordi commerciali, i segreti e gli scandali che avevano avuto luogo nei numerosi angoli di quella casa, negli spazi aperti e in quelli al chiuso». E gli esterni di fango «rendevano impossibile immaginare il tipo di ricchezza e di splendore che si celava dietro mura tanto alte e impenetrabili».
Teta sposò Jiddo a soli quattordici anni. Lui, di vent'anni più grande, rappresentava un ottimo partito perché appartenente a una facoltosa famiglia di mercanti. Ancora bambina, lasciò il suo villaggio in Palestina, Arrabeh, per stabilirsi nella casa di Damasco, modulata sui ritmi e le regole imposte dalle sorelle nubili di Jiddo. Come prevedeva la tradizione, il ritorno al villaggio della sposa era possibile solo dopo aver onorato il marito, e la sua famiglia, di un figlio maschio. Per Teta, questo momento avvenne trent'anni dopo il matrimonio, con quindici gravidanze sostenute e cinque figlie e tre figli sopravvissuti. Particolari che inducono una certa tristezza, seppure inseriti in un contesto di sottomissione totale al marito richiesto dalle consuetudini del tempo a tutte le donne indistintamente.
Eppure, nella grande e ricca casa damascena, risuonavano anche grida festose, fiorivano i pettegolezzi, si intrecciavano i percorsi di vita di innumerevoli persone e i giorni scorrevano con un  ritmo malinconicamente accettabile per Teta e gli altri, movimentati dai grandi raduni familiari previsti immancabilmente il venerdì. Alla «Grande Bouffe» partecipava tutta la famiglia, rispettando un preciso ordine di arrivo e un altrettanto preciso cerimoniale di saluti. Raduni che continuarono fino alla morte di Jiddo, vissuto quasi cent'anni, quando la famiglia si sgretolò e prevalsero interessi personali rimasti sopiti per anni. Non cambiava mai nulla in quelle feste, tranne il menu che comprendeva sempre diversi piatti principali e un numero incalcolabile di antipasti, risultato di «un'accurata organizzazione e un notevole sforzo».
Suad Amiry, nipote di Teta e Jiddo,  afferma di aver scritto la storia della sua famiglia su pressione del suo editor, e sembra scusarsi per le «inevitabili incongruenze: memoria affettiva e ricordi d'infanzia non possono che essere pieni di contraddizioni, smagliature, buchi». Ma proprio insinuarsi in questi buchi permette di immaginare, o sognare, i tradimenti, gli intrighi, i matrimoni combinati e sofferti e le innumerevoli emozionanti storie che tessono la trama del romanzo.

Damasco, Suad Amiry, cura e traduzione dall'inglese di Maria Nadotti, Feltrinelli 2016.
Suad Amiry è un'architetta palestinese, nata a Damasco, risiede a Ramallah ed è impegnata sul fronte della conservazione del patrimonio architettonico del suo Paese. Ha già pubblicato altri volumi per Feltrinelli, sempre con la pregevole traduzione di Maria Nadotti.


Questo testo, corredato di splendide immagini scelte da Fernanda Ferraresso, è già comparso sul blog 

Sulle tracce di Artemisia


Un incontro inaspettato, a Napoli: Artemisia Gentileschi (1598), che lì visse e tenne scuola di pittura e accademia di disegno. Sue opere al Museo Nazionale di Capodimonte e a Palazzo Zevallos. Facile perdersi nei colori pastosi delle stoffe che rivestono le sue eroine, come Giuditta, interrogarsi sul sangue che macchia la tela, sotto la testa di Oloferne, (ri)conoscere la grandezza di un talento pittorico femminile, quindi raro, del Seicento.
Guida d'eccezione è Artemisia, di Anna Banti, libro sorprendentemente fresco e coinvolgente, benché pubblicato nel 1947. Una prosa «stupenda, mossa, varia[...], insaporita di dialetti», come la definisce nella postfazione Attilio Bertolucci. Libro difficile a definirsi perché non è un romanzo storico, anche se si può leggere come tale, ingolfandosi negli eventi di una vita non ordinaria, ma Banti si mette qui direttamente in gioco, richiamando emozioni e intessendo un dialogo immaginario con la sua protagonista, talvolta  apparendo restia a parlarne o impossibilitata a non farlo.
«Ora è per me sola che Artemisia recita la lezione, vuol provarmi di credere tutto quel che inventai e si fa tanto docile che persino i suoi capelli cambiano di colore, divengono quasi neri, e olivastro l'incarnato: tale io l'immaginavo quando cominciai a leggere i verbali del suo processo sulla carta fiorita di muffa».
Anna Banti (1895 - 1985), pseudonimo di Lucia Lopresti, autrice di  alcune importanti biografie di artisti, era interessata alla peculiarità del talento pittorico femminile e ne scrisse anche in un'altra sua opera, Quando anche le donne si misero a dipingere, dove incontriamo, tra gli altri, i ritratti di Sofonisba Anguissola, Lavinia Fontana e Vanessa Bell. In Artemisia accompagna la giovinetta orfana di madre, figlia di Orazio, pittore famoso, nel corso della sua vita, segnata da uno stupro e, insieme, dal processo che ne seguì. Più di una ferita per Artemisia, una voragine del cuore e degli affetti che l'accompagna sempre, prima costringendola a uno strano matrimonio di facciata destinato, negli anni, a diventare il simulacro di un amore, senza però donarle serenità alcuna o colmare la sua solitudine.
«Non so se di giorno o di notte, se lavorando o passeggiando, ma ad Artemisia, quella spina di Antonio perduto, e perduto per sua colpa, non dette mai tregua».
Immerso nelle sue opere, influenzate dalla corrente caravaggesca, il padre  Orazio appare distaccato, anche quando non lontano, incurante dei suoi figli, interessato solo alla precoce inclinazione artistica di questa figliola che farebbe qualunque cosa per compiacerlo. Ed eccola, Artemisia,  in partenza, per rincorrere eventuali committenti, o sfuggire all'ostilità del prossimo, che la riteneva troppo disinibita, alla volta di Firenze, Napoli, Genova, Londra.
Banti, nella nota di apertura, sostiene che Artemisia sia stata  «Una delle prime donne che sostennero colle parole e colle opere il diritto al lavoro congeniale e a una parità di spirito fra i due sessi».
E, più avanti, considerando le sue coraggiose scelte di vita: «Questa donna che in ogni gesto vorrebbe ispirarsi a un modello del suo sesso e del suo tempo, decente, nobile e non lo trova».
Del suo peregrinare, tra commesse di lavoro, fughe, traslochi e spostamenti vari, resta un lascito di opere che raccontano soprattutto un dolore atroce elaborato nell'alfabeto dell'arte, di una bellezza cupa e smagliante, allo stesso tempo. Banti dichiara che non esistano prove certe della sua data di morte, mente Giulio Carlo Argan la attesta attorno al 1651. Forse un altro segno, una pennellata, perché a ricordare il suo nome non sia una lapide, ma quadri che valgono un viaggio, e non solo.



Artemisia Gentileschi è una personaggia che mi è particolarmente cara e ne ho scritto anche qui
invece il testo riportato sopra si può trovare anche sul blog Carte Sensibili




lunedì 26 giugno 2017

Potrebbe trattarsi di ali





Racconti intensamente narrativi come romanzi brevi, leggibili a più livelli, interrogano e intrattengono. Potrebbe trattarsi di ali è il nuovo libro con cui Emilia Bersabea Cirillo ci provoca, dopo il successo di Non smetto di avere freddo, (Premio Minerva XI edizione). Entrambi de L'Iguana editrice, pregevoli a partire dal disegno di copertina e dalla qualità della carta impiegata, che si fa accarezzare durante la lettura. Anche questo nuovo libro ci porta nella terra antica di Campania dove

"...Il paese è lentamente fuggito da se stesso..." e la città sembra "fatta a pezzi e poi ricomposta secondo un disegno sgraziato. Un terremoto che a giorni compie quarant'anni ha lasciato vistose cicatrici: un marciapiedi tutto buchi, cacca di cane impastata con il tufo, aree edificabili invase da roveti e, dovunque, edifici ricostruiti con un piano in più".


Ci narra storie di donne con un dubbio, un rimpianto, una malattia, che convivono con o in corpi sconosciuti, invecchiati, immensi,  e persino finti, di plastica. Corpi che parlano una lingua imperiosa, condizionante eppure le donne vanno oltre la finitezza simbolica del corpo,  avvertono una soglia da attraversare, che comporta abbandonarsi, radicarsi oppure buttare all'aria le consuetudini e spiccare il volo, fuggire.

"Ci vuole energia per stare al mondo con i piedi ben piantati per terra e la testa alta, come un albero...".

Le donne di Cirillo sono forti anche quando non lo sanno, "piene di grazia" leggera e specchio di una complessa femminile modernità.

Potrebbe trattarsi di ali, Emilia Bersabea Cirillo, L'Iguana editrice, 2017.

mercoledì 3 maggio 2017

Ragione & Sentimento



Ragione e sentimento, due direttrici che consapevolmente o meno, informano la nostra vita, dalle opzioni più insignificanti alle grandi scelte. Jane Austen, di cui ricorre quest'anno il bicentenario della morte, ne ha fatto un romanzo che dialoga ancora con la complessità di oggi (Sense and sensibility, 1811). Austen scomoda la fiaba di Cenerentola, come ha acutamente osservato Sandra Petrignani nella prefazione all'edizione italiana di Theoria del 1996, ma si può aggiungere che scombina le carte per inserire complicazioni godibilissime che rendono questo libro superiore alle pur gradevoli trasposizioni cinematografiche. 

Una riscrittura del romanzo è proposta da Stefania Bertola (autrice amata da questo blog), ma non ci si può certo aspettare da lei l'ambientazione nella campagna inglese del Surrey, quanto piuttosto Torino, nella sua armonica e severa eleganza. Per il resto, troviamo un padre che muore lasciando moglie e tre figlie costrette ad adattarsi a un livello di vita considerevolmente più sobrio. Poi basta la (spudorata) ironia di Bertola a vivacizzare il racconto e regalare una lettura leggera e irresistibile.

Ragione & Sentimento, Stefania Bertola, Einaudi, 2017.


lunedì 24 aprile 2017

La grazia del demolitore



Solo una penna surreale ed empatica come sa farla funzionare Fabio Bartolomei può costruire, e sostenere, il plot fantasioso eppure credibile che si scopre in La grazia del demolitore.

Davide è il rampollo di un palazzinaro senza scrupoli e di una donna persa in una qualche malinconica dolcezza mentale, che parla con suo figlio coinvolgendolo in raffinati passi di Tango Argentino. Questo giovane, che dispone di una vita a dire poco scevra da problemi, può contare su una Maserati, un conto in banca apparentemente illimitato, tutte le donne che gli vanno a genio e un paio di amici altrettanto abbienti e stralunati. Eppure si interessa e poi invaghisce di una ragazza cieca, Ursula, che ha il difetto (o il pregio?) di occupare l'ultimo alloggio di uno stabile condannato alla demolizione dall'ingordigia del palazzinaro di cui sopra. Davide, nel tentativo di rendere più semplice la vita alla ragazza, non si accontenta di riparare marciapiedi sconnessi, dove lei potrebbe inciampare, ma aggiunge alberi e cespugli profumati, perché le essenze colmino il gap sensoriale della mancata vista e la aiutino a orientarsi.
Un romanzo pieno di trovate, difficile parlarne senza svelare troppo, però anche difficile tacere di quando il nostro demolitore  in pectore trascrive, in bassorilievo Braille (!), sul corrimano della scala, le poesie di uno dei libri più consultati da Ursula. Salvo scoprire che non di poesie si tratta.
Se avete letto La banda degli invisibili, Giulia 1300 e altri miracoli e We Are Family, troverete questo nuovo romanzo ancora più irresistibile. E la penna di Bartolomei diventa sempre più raffinata.

La grazia del demolitore, Fabio Bartolomei, e/o, 2016.


mercoledì 5 aprile 2017

Ah, l'amore!

Ah, l'amore! Quante righe sono state scritte in suo nome, e lacrime versate e cioccolatini, rose rosse, diamanti acquistati in suo pretesto. E si continua a parlarne  perché resta un sentimento misterioso, evocato con enfasi, invocato e ripetuto ad oltranza nelle canzoni, accennato con riserbo dai parsimoniosi della parola, sostanzialmente inspiegabile.  Ma raramente si parla di quel particolare amore che si vive nella stagione più tarda della vita, l'amore tra anziani, non l'innamoramento fuggevole, appunto quel che in Questa cosa bizzarra che si chiama amore è tratteggiato come un rapporto amoroso e amorevole, con tutte le manie e le memorie di un sentimento messo alla prova dagli anni e dalla vita che scorre.
Scritto a due mani, come nella finzione letteraria, da ElKe Heidenreich, scrittrice, critica letteraria, giornalista e Bernd Schroeder, sceneggiatore e regista. In forma di diario, presentano Lore e Harry, sposati da decenni, che  riferiscono delle stesse cose, degli stessi impegni e difficoltà ma con punti di vista diversi, decisi a convincersi a vicenda eppure consapevoli di dover mediare. In pensione e dedito al giardinaggio, lui. Ostinata a lavorare in biblioteca e a organizzare incontri con gli autori, lei. «Lore, lascia a me il giardino e tu pensa ai tuoi libri, okay?» scrive Harry.
C'è una sorta di distanza dalla figlia, non dovuta soltanto al luogo in cui risiede, ma alla difficoltà di accogliere le sue scelte. «Cos'è normale? Cos'è giusto? La verità è amara: non capisco né mia figlia, né mia nipote. Sarà colpa mia?» scrive Lore.
E il sesso? Perché sembra sconcertante parlarne se avviene tra non giovani e giovanissimi, ma ecco Lore: «Abbiamo fatto l'amore come una volta (...). Da innamorati. Mica alla maniera dei vecchi...vecchi? Siamo vecchi? Diciamo anziani, già, ma per gli anziani i ritmi sarebbero lenti, tirati per le lunghe... Noi, tutto il contrario».
I sentimenti evolvono attraverso le prove che riserva l'esistenza, sembrano svanire, offuscati dai tradimenti, veri o presunti, ma possono anche  sorprendentemente risorgere. Lore: «Ti amo ancora, mi sa». Harry: «Avvertimi quando ne sei certa».
La quotidianità è fatta di gesti ripetitivi, logoranti, di necessità impellenti, scadenze a cui conformarsi, così Lore: «Mio marito non finisce mai di irritarmi, ma ha dentro ben più di quello che posso aver capito io in tutti questi anni [...] Ma anch'io ho dentro cose che lui nemmeno sospetta. Nostalgie, paure, sensi di colpa». E infine, Harry: «Ah, Lore, quanto mi manchi. Perché non sei qui ad avere l'ultima parola, come hai sempre fatto?». 
Ma non è un rimpianto, è una dichiarazione d'amore.

Questa cosa bizzarra che si chiama amore, Elke Heidenreich, Bernd Schroeder (Alte Liebe, traduz. di Margherita Belardetti), Astoria, 2016.

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