Quentin Blake per Mathilda di Rohald Dahl

mercoledì 5 agosto 2020

Madri gotiche


La prima sensazione conseguente alla lettura di Madri gotiche, di Patrizia Busacca,  è di tristezza, perché il dolore viene ampiamente visitato nelle sue forme di malattia, incuria sanitaria, abbandono e carenza affettiva. Eppure, a libro chiuso, non è la sensazione che rimane perché il pensiero va immediatamente alla ricchezza di argomenti trattati, dall'amicizia tra donne ai riferimenti letterari, passando per i viaggi e la manualità creativa. Il libro esce postumo e questo aspetto, di per sé,  comporta una sfasatura costante tra la narrazione, intrisa di ottimismo, speranza e determinazione e l'epilogo scritto dal marito e curatore, Alessandro Bencivenni, che esplicita di voler dare compimento alla scrittura della moglie, una sorta di «prodigio retroattivo» per dare alle sue pagine «il significato luminoso di un lascito».

Sono due i filoni principali del libro, alternati con un movimento che prescinde dall'ordine cronologico per soffermarsi invece sui dettagli delle esperienze. Un tema importante è la malattia personale dell'autrice, narrata con precisione clinica, senza nascondere nulla, che l'ha impegnata sul fronte della resilienza per lunghi anni tra interventi, terapie invasive e ricadute inaspettate. E l'altro è la storia della zia Lidia, internata appena adolescente e praticamente cancellata dalla narrazione familiare. Su tutto aleggia e ritorna con sottolineature frequenti il rapporto conflittuale e irrisolto con la madre, definita anaffettiva, come già la nonna materna che decise il destino di Lidia.

«Ho passato la vita a cercare di sfuggire quella che io chiamo la maledizione delle madri gotiche; queste figure tristi e depresse che hanno attraversato la mia infanzia e la mia giovinezza e che hanno condizionato con la loro negativa influenza le vite degli altri familiari. Ho lottato con tutte le mie forze per non avere la loro stessa visione della vita. Non volevo che la maledizione si perpetuasse. Infatti, se mia madre ha sopportato l'indifferenza di mia nonna che si era rinchiusa nel suo aspro dolore, a causa dell'internamento della figlia, anche io ho pagato ogni giorno il mio dazio all'infelicità, dacché è nata mia sorella [...] il fatto di essere sana e di non aver avuto i problemi che mia sorella ebbe appena dopo la nascita, divenne per me un fardello molto pesante da portare. Forse lo stesso che mia madre aveva sentito su di sé e che mi ha rovesciato addosso in un tentativo salvifico».

L'autrice, giornalista televisiva,  esplicita in questo testo il desiderio di lasciare traccia della storia della zia e con tale spirito affronta la volontà di diventarne tutrice legale e l'impegno a farle visita, non come obbligo ma come risarcimento affettivo, e poi affronta lo studio dei fascicoli medici e le interviste senza risposta alla madre e agli zii. Si ripercorre tutta la storia della Legge Basaglia nel racconto di Patrizia Busacca, con tutti i lacci e i freni imposti dalla burocrazia, dalla resistenza a cambiare delle strutture  ospedaliere all'impreparazione delle persone preposte al funzionamento del nuovo ordine. Così per decenni la zia Lidia è passata  attraverso cure tremende, sedazione e contenzione, con il risultato dell'annullamento progressivo della sua  personalità e la cancellazione dei suoi diritti civili. È tuttora viva, sopravvissuta a Patrizia e anche questo dettaglio risulta spiazzante e fa riflettere sulla casualità della vita.

Nel racconto non ci sono filtri neppure nel parlare di cancro,  dalla difficile accettazione della diagnosi ai dettagli degli interventi, nell'alternanza di speranza e delusione, senza arrendersi mai. Ma più la volontà  di Patrizia si impone sulle cure, più ci si sente investiti di impotenza come lettori e lettrici.

«Hai il diavolo in corpo e te lo devi estirpare. Così da persona sicura di te che ha tutto sotto controllo, una propria vita, un proprio lavoro, degli affetti, diventi improvvisamente una paziente che deve affidarsi a qualcun altro per salvarsi la vita [...] Non rimane altro, dunque, se non fare i conti con il proprio corpo che ora avverti nella sua parte estranea e ti chiedi perché, ancora una volta, sei messa di fronte a una prova. Non pensi realmente che morirai ma pensi che ci può essere questa possibilità a causa di un errore umano durante l'intervento chirurgico e hai da subito solo un pensiero: non devi lasciare niente al caso e dovrai programmare questa fase della tua vita. Sai da subito che vuoi fare testamento biologico perché non vorresti mai rimanere a vegetare in una sala di ospedale, fai il testamento vero e proprio e sei angosciata all'idea di lasciare tuo figlio. Ha nove anni e ti sembra ancora un cucciolo grande e grosso da coccolare e proteggere».

Senza enfasi, ma con una forza empatica che le derivava da non facili vicende, Patrizia, a un certo punto, decide di dedicarsi soprattutto alla sua famiglia, coltivando gli affetti più cari, senza perdere altro tempo. Scrive di quando in quando un articolo, colleziona opaline, confeziona preziosi bouquet  di perline, secondo un'antica tecnica veneziana, e si dedica allo studio della progettazione di interni. Non abbandona mai i viaggi nell'amata Provenza, in vacanza,  e negli Stati Uniti, per motivi di cure. Proprio visitando l'Art Institute di Chicago, nell'ammirare il dipinto "American Gothic" (Grant Wood, 1930) si ripromette di rompere la "maledizione" parentale,  mettere fine al suo bisogno di amore materno e raccontare la storia della sua famiglia.

Questo intenso memoir  ci conduce in spazi scomodi di riflessione, non è libro che si dimentica facilmente, costringe  a ripensare le nostre priorità alla luce di argomenti che rimuoviamo dal nostro quotidiano: malattia e morte, così poco glamour e poco utili per lavorare, produrre, divertirsi.

«Ho imparato a vivere. Intendiamoci, con i problemi oncologici non si sa mai. Adesso sembro quasi guarita ma tra qualche mese o anno potrei ammalarmi di nuovo e tutto ricomincerebbe da capo. Però tutto ormai ha un sapore diverso».

 Madri gotiche, Patrizia Busacca, LINEA edizioni, 2020.

già pubblicato su

https://cartesensibili.wordpress.com/2020/06/28/lauradeilibri-laura-bertolotti-a-proposito-di-madri-gotiche-di-patrizia-busacca/

 

 

Almarina

Almarina ha sedici anni, è romena e suo padre le ha rotto qualche osso, adesso è a Nisida «per fortuna». È «un nodo, un gomitolo, una scimmia con una tuta sformata di acetato addosso» ma è anche «forte, batte bene, scatta veloce per difendere il punto [...] è generosa» quando gioca con le compagne.

Almarina è il romanzo con cui Valeria Parrella è stata finalista al Premio Strega 2020 e basta leggere le prime pagine per ritenere corretto il suo posizionamento nella cinquina, al di là dell'esito del concorso. 

L'autrice riesce in un sofffio a portarci dentro e fuori l'adolescenza, gli abusi, i corpi di chi a Nisida arriva per aver commesso un reato e lì trova una parentesi in cui può permettersi, ancora e finalmente, di crescere, studiare, sognare. Che cosa sia Nisida è dato saperlo, una delle diciassette carceri minorili del Paese. La novità è piuttosto che Parrella,  attraverso la storia di Almarina,  costringe a pensare e a riflettere sul rimosso comune: le carceri dove  vivono persone con esigenze normali nonostante le limitazioni alla loro libertà. E le carceri minorili, strutture in cui adolescenti e giovani adulti sono rinchiusi perché provati duramente dalla vita, defraudati del loro tempo dalla famiglia o da adulti incoscienti e criminali.

La voce narrante del romanzo è quella della professoressa di matematica, Elisabetta Maiorano, che insegna a Nisida da alcuni anni e ogni giorno, all'ingresso, si riprogramma mentalmente per trovare una collocazione tra i ragazzi e le ragazze, mediando con la sua vita libera "fuori", in una Napoli problematica  e affascinante. Ma adesso deve compiere una mediazione più grande perché la sua vita e il suo lavoro devono adattarsi anche all'elaborazione del lutto recente del marito, che scatena quello più antico, latente, della mancata maternità.

Almarina, che il padre ha violentato e poi rovinato di mazzate, fuggita con il fratello minore,  privata anche da questo legame affettivo per volontà dei servizi sociali, risveglia nella professoressa il sentimento di protezione, il desiderio di cura e responsabilità verso una persona in divenire, la bellezza di vederla  schiudersi a un destino che la risarcisca e la porti «lontano dal suo passato».  Nella speciale empatia che si crea tra la professoressa Maiorano e la studentessa Almarina c'è qualcosa che potrebbe chiamarsi amore, declinato nella misura del dono che non chiede nulla in cambio, che aiuta a vivere, «l'amore delle madri: senza merito, senza reciprocità, senza conquista».

La scrittrice ha operato come volontaria nel carcere di Nisida animando un laboratorio di scrittura creativa, forse per questo motivo si respira tra le sue righe molto rispetto per le persone che vivono la condizione di reclusi e per quanti vi lavorano. Si colgono tutte le sfaccettature della cosiddetta "pena", dalla punizione, alla compassione, alla fatica che i soggetti provano "dentro", al di là del ruolo che giocano. E c'è molta delicatezza nella penna di Parrella nel maneggiare questi temi senza cadere nel melò, senza forzare i toni, con un poetico equilibrio tra memoria, realtà e sguardo su un possibile futuro.

 Almarina, Valeria Parrella, Einaudi, 2019.


già pubblicato su

https://www.heraldo.it/2020/07/13/almarina-che-rinasce-a-nisida/


Cambiare l'acqua ai fiori


Sempre, in estate, c'è voglia di vacanze e anche quest'anno, nonostante le limitazioni negli spostamenti, da fase 2 Covid19, si favoleggia di mare, montagna e viaggi nel nostro Paese o non troppo lontano. E, come sempre, anche la selezione dei libri offerti dalle case editrici si adegua a una maggiore leggerezza.

Un romanzo che è saldamente in classifica tra i più venduti  da diverse settimane è Cambiare l'acqua ai fiori di Valérie Perrin. Ha tutte le caratteristiche di leggibilità che si richiede a un libro da portarsi in spiaggia, su una panchina al fresco o in viaggio. L'autrice, già fotografa di scena del marito, il regista  Claude Lelouche, ha costruito una storia che, nonostante tocchi la sofferenza dell'abbandono infantile, dell'infelicità coniugale e della morte, riesce ad attrarre chi legge dalla prima all'ultima riga e non risulta mai greve nei toni. Tuttavia, per muoverle una critica, si può osservare che il finale è scontato, così come appare ingenuamente  semplificato il corso degli eventi e lo sviluppo delle relazioni fra i vari personaggi.

Ambientato in Francia, racconta le vicende di una ragazza cresciuta in orfanatrofio, con un'adolescenza gestita dai servizi sociali, che pensa di trovare un ancoraggio alla sua vita in un bellimbusto dai modi spavaldi. Il tipo si rivela presto nullafacente ed egoista, ma il lavoro di Violette, prima a un passaggio a livello, con turni massacranti, poi come custode di un cimitero, e soprattutto l'amore per la figlia, l'aiutano a trovare la motivazione per affrontare le avversità, ogni singolo giorno.

Vive nella casetta al margine del cimitero, accudisce le tombe, per così dire, le libera dalle erbacce, rimuove i fiori appassiti, ne coltiva di suoi, apre la sua casa a chi vuole parlare e sfogarsi dei propri problemi, non nega a nessuno una tazza di tè e una compagnia attenta. Tiene un registro delle sepolture, in cui annota le date, i nomi dei defunti e trascrive i discorsi di saluto, pronta a scriverne di suoi, su richiesta dei parenti. Ma il destino sembra accanirsi su di lei togliendole finanche l'affetto più caro e Violette reagisce con una pena profonda che l'accompagnerà sempre. All'apparenza austera, serba invece una vitalità segreta che rivela solo agli amici e conoscenti più cari. La sua vita si basa su un ordine stagionale, lo stesso che accompagna la produzione del suo orto e del suo giardino. E poi arriva una persona a scompigliare il suo equilibrio, rivelandole aspetti del passato che credeva archiviati nella mente e nel cuore.

La protagonista, Violette, è di quelle che non si scordano per come l'autrice ha saputo magicamente tratteggiarne la resilienza e bontà senza eguali. È questo un romanzo che trova estimatori ed estimatrici tra le persone con i gusti più differenti quanto a letture, forse perché tocca temi cari ai più e propone un approccio positivo ai problemi e alla vita stessa.

In fondo, di questi tempi, più o meno tutti "sembra" che avvertano il bisogno di credere nella bellezza e nella bontà.

 Cambiare l'acqua ai fiori, Valérie Perrin, edizioni e/o, 2019.


già pubblicato su 

https://cartesensibili.wordpress.com/2020/07/28/lauradeilibri-laura-bertolotti-cambiare-lacqua-ai-fiori-di-valerie-perrin-recensione/