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mercoledì 13 settembre 2017

La città interiore



Un libro labirintico, a dir poco, facile perdersi nella ridda di nomi, utile rileggere e soffermarsi ne La città interiore di Mauro Covacich, finalista nel Premio Campiello 2017.
Romanzo? Forse. Lo definirei narrazione non narrativa di incontri avvenuti  in un tempo altalenante fra ieri e oggi, un secolo fa e ancora prima. Il nonno e il padre, gli amici, la nonna e la mamma «Quando mia madre è rimasta vedova era ancora identica alla ragazza del Paradiso, poi sono venuti a visitarla i fantasmi e la ferma decisione di invecchiare un anno al giorno». Gli studi, esilarante l’episodio del suo mancato esame con Magris. E poi la foiba.
La città interiore è davvero un viaggio nel rimosso e rimovibile di ognuno di noi, sicuramente dell'autore, che ci traghetta in un angolo di mondo percorso da confini tracciati con la matita e il sangue delle guerre. Usa una lingua sapiente, ma apparentemente dimessa, richiamandosi alla letteratura minore, come è stata definita da Gilles Deleuze e Félix Guattari, nel senso di far un uso minoritario di una lingua maggiore. Covacich ricorda Kafka, che scriveva in tedesco, in un paese di parlanti il ceco, e Svevo, che scriveva in italiano ma parlava italiano nella vita di tutti i giorni.
«Anche quando trovi casa nella scrittura, la lingua in cui scrivi è lì a rammentarti che non sei a casa tua. È un disagio di cui però puoi far tesoro. Vivere la sensazione vaga e persistente di essere un intruso nel proprio cervello».
Falsa modestia? No, asciuttezza triestina, direi. Certo è che l’equilibrio del racconto tra narrazione storica e ricordo/impressione personale non viene mai meno. La sensazione prevalente è di un’armonia che connette immaginazione e memoria, che si tratti dell’appartamento in ristrutturazione, del viaggio, degli incontri. Su tutto, come un centro gravitazionale, Trieste, da cui i triestini,  le identità confuse, celate, sconosciute, la Slovenia e la Croazia.
«Noi apparteniamo alla gente germinata nei conglomerati di periferia-non alveari, bensì termitai […]. Quartieri distanti uno sputo dal centro, eppure inesorabilmente consegnati a un’altra visione del mondo […] i miei compagni di classe e di università, che avevano sempre un nonno che parlava con naturalezza in greco o in tedesco […]. Ragazzi col doppio cognome, spesso di origine ebraica, che vivevano in via Rossetti o sul colle di S. Vito e nei loro appartamenti pieni zeppi di libri avevano la stanza per la domestica. E in casa parlavano in lingua, come ancor oggi si usa dire invece che in italiano, a marcare con un’espressione così curiosa la distanza dal dialetto».
A prescindere da quanto voglia farne parte, la città interiore di Covacich si compone di un intreccio inestricabile di lingua, storia, luoghi e persone sotto il «culto di un passato comune, una specie di coperta asburgica».


La città interiore, Mauro Covacich, La nave di Teseo, 2017.

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