Un libro labirintico, a dir poco, facile perdersi nella
ridda di nomi, utile rileggere e soffermarsi ne La città interiore di
Mauro Covacich, finalista nel Premio Campiello 2017.
Romanzo? Forse. Lo definirei narrazione non narrativa di
incontri avvenuti in un tempo
altalenante fra ieri e oggi, un secolo fa e ancora prima. Il nonno e il padre,
gli amici, la nonna e la mamma «Quando
mia madre è rimasta vedova era ancora identica alla ragazza del Paradiso, poi
sono venuti a visitarla i fantasmi e la ferma decisione di invecchiare un anno
al giorno». Gli
studi, esilarante l’episodio del suo mancato esame con Magris. E poi la foiba.
La città interiore è davvero un viaggio nel rimosso e rimovibile di ognuno di noi, sicuramente dell'autore, che ci traghetta in un angolo di mondo percorso da confini tracciati con
la matita e il sangue delle guerre. Usa una lingua sapiente, ma apparentemente
dimessa, richiamandosi alla letteratura minore, come è stata definita da Gilles
Deleuze e Félix Guattari, nel senso di far un uso minoritario di una lingua
maggiore. Covacich ricorda Kafka, che scriveva in tedesco, in un paese di
parlanti il ceco, e Svevo, che scriveva in italiano ma parlava italiano nella
vita di tutti i giorni.
«Anche
quando trovi casa nella scrittura, la lingua in cui scrivi è lì a rammentarti
che non sei a casa tua. È un
disagio di cui però puoi far tesoro. Vivere la sensazione vaga e persistente di
essere un intruso nel proprio cervello».
Falsa modestia? No, asciuttezza triestina, direi. Certo è
che l’equilibrio del racconto tra narrazione storica e ricordo/impressione
personale non viene mai meno. La sensazione prevalente è di un’armonia che
connette immaginazione e memoria, che si tratti dell’appartamento in ristrutturazione, del viaggio, degli incontri. Su tutto, come un centro gravitazionale, Trieste, da cui i triestini, le identità confuse, celate, sconosciute, la Slovenia e la
Croazia.
«Noi
apparteniamo alla gente germinata nei conglomerati di periferia-non alveari,
bensì termitai […]. Quartieri distanti uno sputo dal centro, eppure inesorabilmente
consegnati a un’altra visione del mondo […] i miei compagni di classe e di
università, che avevano sempre un nonno che parlava con naturalezza in greco o
in tedesco […]. Ragazzi col doppio cognome, spesso di origine ebraica, che
vivevano in via Rossetti o sul colle di S. Vito e nei loro appartamenti pieni
zeppi di libri avevano la stanza per la domestica. E in casa parlavano in lingua, come ancor oggi si usa dire
invece che in italiano, a marcare con
un’espressione così curiosa la distanza dal dialetto».
A prescindere da quanto voglia farne parte, la città
interiore di Covacich si compone di un intreccio inestricabile di lingua,
storia, luoghi e persone sotto il «culto
di un passato comune, una specie di coperta asburgica».
La
città interiore, Mauro Covacich, La nave di Teseo, 2017.
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