«Sulla
felicità avrei molto da dire. Per questo ho scritto un libro» dichiara Marika
Borrelli e, nel suo #Felicità, si possono davvero scoprire molte declinazioni
del termine, citazioni filosofiche dagli stoici, epicurei e cinici, incursioni
nella meccanica quantistica, sconfinamenti nella musica leggera e
contaminazioni interculturali. E poi liste di consigli, suggerimenti, rimedi
per la (rin)corsa verso questa specie di Santo Graal della nostra epoca.
Che sia un polpettone, un pamphlet come ce ne sono tanti in circolazione su un tema modaiolo,
«un’ossessione
ricorrente, specialmente giornalistica, specialmente estiva»?
No, non ne sarei arrivata al termine perché frequento
altre letture, è piuttosto un libro spassoso, e sottolineo spassoso, che
racconta e racchiude una disamina per nulla superficiale sulle credenze, anche
contraddittorie, intorno a un argomento tipico della nostra società, più o meno
benestante, annoiata, ansiosa.
Ma dove si trova o si potrebbe trovare la felicità per
l’autrice? Semplice, nelle piccole cose, come scrive Lou Marinoff nel suo Platone è meglio del Prozac ed è anche
inutile cercare una definizione esaustiva di felicità perché essa «assume tanti aspetti
quante le antropologie e le filosofie umane». Pertanto
ai Norvegesi sembra tale lo utepils
(bere una birra molto ghiacciata); per i Tedeschi è la Heimat (l’attaccamento orgoglioso alle proprie origini
geografiche); i Filippini la chiamano gigil
(pizzicottare qualcuno per gioia/amore/affetto) e i Danesi hanno l’higge, diventato fenomeno di costume
esportato dai media. Si pronuncia /hiùgaal/
precisa Borrelli, con l’h aspirata e significa comodità, uno stile di vita
felicitante che prevede coccole, babbucce di lana, caminetti accesi e candele
profumate. Ma anche l’higge ha il suo
lato oscuro quando allontana originalità e creatività come se fossero
minacciose e, per noi italici, abituati a sole e luce, l’autrice ne vede
l’applicazione solo «nei
giorni di neve o di grandi e fredde piogge».
Molto diversa l’accezione di felicità che si evince da
Kant, come di “dovere” e quella di Schopenauer, come “chimera” perché solo
sofferenza e dolore sono reali, per tacere di Aristotele «per il quale
l’assenza di dolore è già felicità, anzi è l’unica felicità».
La sag(r)a di Borrelli, lei stessa gioca sul termine, si
sviluppa in sessantotto capitoli, accostando, tra l’altro, anche la social-felicità, ovvero il
rispecchiamento nei social network,
dove è obbligatorio sembrare felici, perché l’infelicità è contagiosa e più
difficile da gestire. E ammonisce Seneca: «Nessuno
è infelice se non per colpa sua»,
nella sua visione è contemplato il raggiungimento in solitaria della suddetta,
quasi fosse una cima, «praticando virtù ed eliminando i desideri», con
l’aggiunta dell’atarassia, ovvero la
sospensione del giudizio, senza il quale non ci si impegola in complicazioni
che minano la nostra serenità.
Sembra
prevalere, secondo l’autrice, una concezione “proprietaria” della felicità, o
“euforica”, secondo la quale «si è felici se si ha/ottiene qualcosa», invece
lei ci propone un rovesciamento:
considerarla sotto forma di senso e significato, differenziando tra quella
“edonistica”, o del piacere personale, ed “eudaimonistica”, che implica vivere
bene con gli altri. «Felicità come fiume significa che esiste ed esisterà un
flusso (variabile) in cui essere immersi». E poi «fare è essere […] L’abilità
in qualcosa porta felicità, e l’attività produttiva rende una soddisfazione
immediata, come fare marmellate, palleggiare a basket, o coltivare zucchini». Mentre il «non saper fare o il non
sapere tout court conduce a una
perdita di controllo […] sulle cose» e produce «ansia e inquietudine».
Ammessi gli
errori perché «sbagliare è un dono prezioso», ma le «scuole italiane non
rendono felici. Non gli studenti, tantomeno gli insegnanti», a differenza del
modello scolastico finlandese, improntato a considerare la scuola «il posto
dell’anima».
Anche il
lavoro, di per sé, non assicura automaticamente la felicità, ci sono mestieri
più “comburenti” di altri (nel senso del burn
out) e poi c’è la faccenda di quanto si guadagna, ma la via d’uscita
potrebbe essere reinventarsi un altro se stesso: Franz Kafka era un
assicuratore, per esempio, Einstein lavorava all’ufficio brevetti. Del resto non
era Aristotele che affermava: «lo scopo del lavoro è semplicemente quello di
guadagnarsi il tempo libero»?
Praticamente,
per orientarsi nella baraonda di tendenze, concezioni, mode e guru del caso,
Borrelli salva sempre e comunque l’ironia «non il sarcasmo», perché «la
felicità intesa come obiettivo è un disastro» quindi il consiglio è di
lasciare che le cose capitino e «never feed the trolls», cioè non curarsi
troppo dei giudizi negativi, che “infelicitano”.
Non paia una
sintesi semplicistica, au contraire
l’autrice squaderna una miriade di possibilità e itinerari, lasciando trapelare
molte possibilità di riflessione, a seconda dei propri valori di riferimento.
Quanto al
cibo, non nega che abbia molto a che fare con la felicità «perché è un efficace
antidepressivo». In proposito, ci confessa un suo dubbio amletico circa la
torta di mele (!). Si chiede, in buona sostanza, quale sia “la” torta di mele
per eccellenza: quella “sgonfiotta” di Nonna Papera (apple pie), l’impasto onnicomprensivo tipo ciambellone con le mele
tagliuzzate dentro, oppure la pasta frolla ricoperta di mele e gelatina?
Non mi intendo
di felicità, almeno non nel senso colto dell’autrice, ma sulla torta di mele la
so lunga e posso azzardare che vanno bene tutte, e tutte possono fregiarsi del
nome “torta di mele”, a seconda dei gusti, dell’umore e dell’abilità di chi le
prepara. Proprio come suggerisce l’autrice tante sono le strategie per
inseguire, riconoscere e godere della felicità.
#Felicità, Marika Borrelli, L'Iguana Editrice, 2017.
pubblicato su
Leggere Donna n°177/2017
https://cartesensibili.wordpress.com/2017/11/28/lauradeilibri-laura-bertolotti/
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