Almarina ha sedici anni, è romena e suo padre le ha rotto qualche osso, adesso è a Nisida «per fortuna». È «un nodo, un gomitolo, una scimmia con una tuta sformata di acetato addosso» ma è anche «forte, batte bene, scatta veloce per difendere il punto [...] è generosa» quando gioca con le compagne.
Almarina è il romanzo con cui Valeria Parrella è stata finalista al Premio Strega 2020 e basta leggere le prime pagine per ritenere corretto il suo posizionamento nella cinquina, al di là dell'esito del concorso.
L'autrice riesce in un sofffio a portarci dentro e fuori l'adolescenza, gli abusi, i corpi di chi a Nisida arriva per aver commesso un reato e lì trova una parentesi in cui può permettersi, ancora e finalmente, di crescere, studiare, sognare. Che cosa sia Nisida è dato saperlo, una delle diciassette carceri minorili del Paese. La novità è piuttosto che Parrella, attraverso la storia di Almarina, costringe a pensare e a riflettere sul rimosso comune: le carceri dove vivono persone con esigenze normali nonostante le limitazioni alla loro libertà. E le carceri minorili, strutture in cui adolescenti e giovani adulti sono rinchiusi perché provati duramente dalla vita, defraudati del loro tempo dalla famiglia o da adulti incoscienti e criminali.
La voce narrante del romanzo è quella della
professoressa di matematica, Elisabetta Maiorano, che insegna a Nisida da
alcuni anni e ogni giorno, all'ingresso, si riprogramma mentalmente per trovare
una collocazione tra i ragazzi e le ragazze, mediando con la sua vita libera "fuori",
in una Napoli problematica e
affascinante. Ma adesso deve compiere una mediazione più grande perché la sua
vita e il suo lavoro devono adattarsi anche all'elaborazione del lutto recente
del marito, che scatena quello più antico, latente, della mancata maternità.
Almarina, che il padre ha violentato e poi rovinato
di mazzate, fuggita con il fratello minore,
privata anche da questo legame affettivo per volontà dei servizi
sociali, risveglia nella professoressa il sentimento di protezione, il
desiderio di cura e responsabilità verso una persona in divenire, la bellezza
di vederla schiudersi a un destino che
la risarcisca e la porti «lontano dal suo passato».
Nella speciale empatia che si crea tra
la professoressa Maiorano e la studentessa Almarina c'è qualcosa che potrebbe
chiamarsi amore, declinato nella misura del dono che non chiede nulla in
cambio, che aiuta a vivere, «l'amore delle madri: senza merito, senza
reciprocità, senza conquista».
La scrittrice ha operato come volontaria nel carcere
di Nisida animando un laboratorio di scrittura creativa, forse per questo
motivo si respira tra le sue righe molto rispetto per le persone che vivono la
condizione di reclusi e per quanti vi lavorano. Si colgono tutte le
sfaccettature della cosiddetta "pena", dalla punizione, alla
compassione, alla fatica che i soggetti provano "dentro", al di là del
ruolo che giocano. E c'è molta delicatezza nella penna di Parrella nel
maneggiare questi temi senza cadere nel melò, senza forzare i toni, con un
poetico equilibrio tra memoria, realtà e sguardo su un possibile futuro.
già pubblicato su
https://www.heraldo.it/2020/07/13/almarina-che-rinasce-a-nisida/
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