in
lingua ebraica, significa “ascolta e ricorda” e proprio l’ascolto e il ricordo
hanno permesso di trasmettere la memoria dei padri ai figli, quella preziosa
tradizione collettiva e familiare su cui poggia l’ebraismo.
Ascolta
e ricorda. Sguardo sulla letteratura ebraica dell’Ottocento e Novecento
è il titolo dell’antologia critica di Teresa e Adele Salzano (a cura di Maurizio Del Maschio, PensaMultiMedia,
Lecce, 2012) che porta alla luce un patrimonio culturale ancora largamente
ignorato.
Le autrici
hanno dedicato saggi monografici ad autori considerati quali Isaac Bashevis Singer, Elias Canetti, Henry Roth, Primo Levi, inoltre hanno
tracciato una disamina della lingua yiddish,
sottolineandone il valore di coesione sociale, politica e religiosa.
Lo yiddish
era la parlata giudeo-tedesca, il dialetto del popolo, databile tra il IX e il
X secolo, rimase tale fino al 1700, infine fu riconosciuto come lingua nel
1908; era contrapposto all’ebraico, lingua sacra per accostarsi scritture, ma gli scrittori ebrei compresero che, per
farsi capire dal popolo, dovevano assumerne la lingua.
I “padri
fondatori” di questa lingua e letteratura yiddish si fecero interpreti,
ciascuno a suo modo, dei fermenti sociali che animavano lo shtetl, il
villaggio ebraico, e ne raccontarono la vivace umanità e le sue tradizioni.
Solomon
Moyseyevic Abramovich (1835 – 1917), conosciuto con lo pseudonimo Mèndele
Mocher Sforim ( mèndele significa libraio ambulante!) fu un grande
divulgatore e si schierò apertamente per l’emancipazione del suo popolo.
Isaac Leib
Peretz (1852 – 1916), forse l’autore più conosciuto in occidente, subì
l’influenza della letteratura tedesca e si impegnò per il riconoscimento dello yiddish
quale trait d’union tra le spinte tradizionaliste e progressiste
all’interno del mondo ebraico.
Il terzo
padre fondatore, Sholem Aleichem (1859 – 1916), che significa “la pace sia con
voi”, pseudonimo di Shòlem Naumovic
Rabinovic, usò l’umorismo come arma per superare le fragilità e vanità umane.
Si direbbe
una letteratura al maschile perché le voci femminili sembrano essere rare, se
si esclude Glückel von Hameln (1646 – 1724) che narrò, in yiddish, il
suo dolore di vedova, oppressa dalle preoccupazioni economiche, non trascurando
di annotare gli avvenimenti della sua comunità. E poi Lise Loewenthal (1922 –
2003) con il suo romanzo Shalom, Ruth, Shalom, rivolgendosi a giovani
lettori, ha contribuito alla riflessione sulla Germania nazista, il
Sionismo e l’immigrazione in Palestina.
Lo “sguardo”
delle autrici, che abbracci autori illustri e insigniti del Nobel, o altri
autori meno noti, è sempre rivolto agli anni della loro formazione, agli
influssi culturali e politici che hanno subito e respirato. Ne risulta un
affresco umano e storico, non privo di voci contrastanti, in cui figurano tutti
i grandi avvenimenti che segnarono, nei secoli, la vita degli ebrei della
diaspora.
L’antigiudaismo
di matrice cristiana, che diede origine ai ghetti; la dialettica tra
l’Ortodossia e l’Ebraismo riformato, in seguito all’ haskalàh, l’illuminismo
ebraico; i pogrom con le grandi migrazioni dalla Russia e dalla Polonia
verso l’Europa occidentale; l’influenza del Chassidismo (pietismo) e della Qabbalàh
(ricezione) sulla presa di coscienza dei propri diritti; la Shoah e i
negazionisti; il dialogo ebraico – cristiano.
Teresa e
Adele Salzano, accostando una pluralità di temi e autori, presentati con un
puntuale apparato bibliografico, hanno fatto di questo libro un invito alla
conoscenza e allo studio per non disperdere un sapere antico che può aiutare ad
interrogarsi, ogni giorno, sulle proprie motivazioni ad agire e a non allontanare da sé le
responsabilità.
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