Quentin Blake per Mathilda di Rohald Dahl

venerdì 28 giugno 2013

Shemà ve-Zachor

in lingua ebraica, significa “ascolta e ricorda” e proprio l’ascolto e il ricordo hanno permesso di trasmettere la memoria dei padri ai figli, quella preziosa tradizione collettiva e familiare su cui poggia l’ebraismo.
Ascolta e ricorda. Sguardo sulla letteratura ebraica dell’Ottocento e Novecento è il titolo dell’antologia critica di Teresa e Adele Salzano (a cura di Maurizio Del Maschio, PensaMultiMedia, Lecce, 2012) che porta alla luce un patrimonio culturale ancora largamente ignorato.
Le autrici hanno dedicato saggi monografici ad autori considerati quali Isaac Bashevis Singer, Elias Canetti, Henry Roth, Primo Levi, inoltre hanno tracciato una disamina della lingua  yiddish, sottolineandone il valore di coesione sociale, politica e religiosa.
Lo yiddish era la parlata giudeo-tedesca, il dialetto del popolo, databile tra il IX e il X secolo, rimase tale fino al 1700, infine fu riconosciuto come lingua nel 1908; era contrapposto all’ebraico, lingua sacra per accostarsi scritture, ma  gli scrittori ebrei compresero che, per farsi capire dal popolo, dovevano assumerne la lingua.
I “padri fondatori” di questa lingua e letteratura yiddish si fecero interpreti, ciascuno a suo modo, dei fermenti sociali che animavano lo shtetl, il villaggio ebraico, e ne raccontarono la vivace umanità e le sue tradizioni.
Solomon Moyseyevic Abramovich (1835 – 1917), conosciuto con lo pseudonimo Mèndele Mocher Sforim ( mèndele significa libraio ambulante!) fu un grande divulgatore e si schierò apertamente per l’emancipazione del suo popolo.
Isaac Leib Peretz (1852 – 1916), forse l’autore più conosciuto in occidente, subì l’influenza della letteratura tedesca e si impegnò per il riconoscimento dello yiddish quale trait d’union tra le spinte tradizionaliste e progressiste all’interno del mondo ebraico.
Il terzo padre fondatore, Sholem Aleichem (1859 – 1916), che significa “la pace sia con voi”,  pseudonimo di Shòlem Naumovic Rabinovic, usò l’umorismo come arma per superare le fragilità e vanità umane.
Si direbbe una letteratura al maschile perché le voci femminili sembrano essere rare, se si esclude Glückel von Hameln (1646 – 1724) che narrò, in yiddish, il suo dolore di vedova, oppressa dalle preoccupazioni economiche, non trascurando di annotare gli avvenimenti della sua comunità. E poi Lise Loewenthal (1922 – 2003) con il suo romanzo Shalom, Ruth, Shalom, rivolgendosi a giovani lettori, ha contribuito alla riflessione sulla Germania nazista, il Sionismo e l’immigrazione in Palestina.
Lo “sguardo” delle autrici, che abbracci autori illustri e insigniti del Nobel, o altri autori meno noti, è sempre rivolto agli anni della loro formazione, agli influssi culturali e politici che hanno subito e respirato. Ne risulta un affresco umano e storico, non privo di voci contrastanti, in cui figurano tutti i grandi avvenimenti che segnarono, nei secoli, la vita degli ebrei della diaspora.
L’antigiudaismo di matrice cristiana, che diede origine ai ghetti; la dialettica tra l’Ortodossia e l’Ebraismo riformato, in seguito all’ haskalàh, l’illuminismo ebraico; i pogrom con le grandi migrazioni dalla Russia e dalla Polonia verso l’Europa occidentale; l’influenza del Chassidismo (pietismo) e della Qabbalàh (ricezione) sulla presa di coscienza dei propri diritti; la Shoah e i negazionisti; il dialogo ebraico – cristiano.
Teresa e Adele Salzano, accostando una pluralità di temi e autori, presentati con un puntuale apparato bibliografico, hanno fatto di questo libro un invito alla conoscenza e allo studio per non disperdere un sapere antico che può aiutare ad interrogarsi, ogni giorno, sulle proprie motivazioni ad agire e a non allontanare da sé le responsabilità.








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