Nato come campo di rieducazione per donne, per volontà di Himmler nel 1938, inizialmente destinato alle tedesche contrarie al regime, vide rinchiuse anche prostitute, criminali comuni, vagabonde e zingare. Tra loro solo un'esigua percentuale del 10% era di religione ebraica, fino a quando arrivarono in massa donne e bambini dal ghetto di Varsavia. Sulla divisa portavano un triangolo di stoffa che simbolicamente raffigurava la loro diversità: rosso le politiche, verde le criminali, viola le testimoni di Geova, giallo le ebree, nero le zingare e le cosiddette "asociali". Venti baracche, o Block, ognuna delle quali poteva contenere duecento prigioniere, avendo previsto una capacità del campo di quattromila prigioniere, eppure arrivò a contenerne novantamila nei mesi successivi al 1944, ogni cuccetta contava fino a quattro donne.
Anche mille
italiane ne fecero parte, malviste da tutte le altre perché considerate
fasciste. Il campo, come tutte le realtà concentrazionarie, disponeva di due
ordini di sorveglianza, una composta dalle
SS che detenevano il potere, l'altra formata da prigioniere, investite del
ruolo di guardiane per gestire la quotidianità. Quelle donne ottenevano per
loro stesse un livello migliore di trattamento se non esitavano a infierire sulle loro compagne. Difficile da accettare, ammette
l'autrice, perché abbatte lo stereotipo della bontà femminile.
Nel catalogo di efferatezze che si compirono spicca il
famigerato dottor Karl Gehhardt che
inoculava su giovani donne polacche, chiamate "conigliette", germi di ogni tipo per testare la validità dei
sulfamidici. Qualcuna di loro riuscì a far trapelare l'informazione delle
sevizie alla famiglia, la Croce Rossa svizzera fu avvisata ma non intervenne in
alcun modo. Solo diciotto di loro, protette dalle altre prigioniere, riuscirono
a salvarsi, nonostante le SS cercarono di ucciderle per non lasciare testimonianza
degli esperimenti.
Eppure, ci rivela l'autrice, a Ravensbrűck, come negli
altri campi, era praticata una forma di resistenza creativa e artistica che si
esprimeva con disegni, cori, incontri formativi chiamati
"conferenze", poesie, piccoli lavori di ricamo, e poi racconti di
storie, trame di libri, opere teatrali. Come i disegni, anche la poesia, così simile
alla preghiera per ritmo e profondità, si rivelò un efficace strumento di
resilienza. Tutte attività proibite, tanto che la loro scoperta comportava gravi punizioni.
Il saggio di Ricci si interroga e sottolinea i problemi
più frequenti che si presentavano, come le mestruazioni, la fame cronica, l'assenza di medicine, gli
stupri, le molestie. Tuttavia quel contesto terribile ed estremo faceva emergere una forza interiore che
rafforzava forme di solidarietà tra le prigioniere. Infatti l'amicizia, nel
campo, era tutto e si formavano gruppi di mutua assistenza, le cosiddette
"famiglie di campo", accomunando le prigioniere per provenienza
geografica, ideologia o classe sociale. Erano un valido aiuto per la
condivisione del cibo e dei vestiti. E nacquero amori, come quello tra Margarete
Buber e Milena Jasenska.
La peculiarità di questo libro sta nell'empatia che si
respira tra le righe infatti l'autrice afferma di aver avvertito una
particolare vicinanza le donne di Ravensbrűck e stabilisce un paragone fra
l'antico dolore femminile, sottomesse al
dominio patriarcale e quello delle donne prigioniere, anch'esse vittime della
sopraffazione dell'uomo.
L'evocativo titolo del saggio riprende una frase di Etty
Hillesum che, dal campo di Westerbork dov'era rinchiusa, osservava «I lupini
violetti stanno là, così principeschi e così pacifici». Nella parte centrale
del libro sono raccolte riproduzioni dei disegni eseguite dalle artiste
Violette Lecoq, Aat Breuer, Eliane Jeannin-Garreau, France Audoul, Charlotte
Salomon, Jeannette L'Herminier, Helen Ernst, Ivonne Uselinger. Testimonianze
arrivate fortunosamente a noi, sarebbero costate punizioni, torture, anche la
vita delle loro autrici se fossero state scoperte nel campo. «Non si tratta di
conservare questa vita a ogni costo, ma di come la si conserva», scriveva Etty Hillesum, cogliendo profondamente il
senso della vita che prevale anche nella reclusione.
Nel racconto documentato di Katia Ricci la storia del
campo di Ravensbrűck diventa la storia delle donne di Ravensbrűck
che, con il loro mutuo aiuto e le forme dell'arte, insegnano a tutte noi, e
particolarmente alle giovani generazioni, ad andare "oltre" il dolore, le
meschinità, la violenza, le molestie e
praticare la solidarietà nel senso più vero del termine.
Lupini violetti dietro il filo spinato. Artiste e poete a Ravensbrück, Katia Ricci, Luciana Tufani Editrice, 2020.
pubblicato su
Leggere Donna, n. 189/2020